“Serbare è perire” come scriveva Gibran. Trincerarsi nel proprio guscio, non aprirsi e non accogliere, preclude la capacità di scoprire, conoscere e arricchirsi, questo equivale alla stagnazione, alla staticità, alla “morte”. Il mettersi in discussione, il dubbio, l’ascolto, il cambiamento di prospettiva invece sono fluidità, dinamismo, trasformazione, proprio come ciò che VIVE.
L’egoismo (chi pensa e ha a cuore soltanto il proprio benessere a scapito di chi lo circonda) e l’egocentrismo (il considerare come valido e veritiero soltanto il proprio punto di vista) portano solo alla messa in atto di strategie per difendere l’Ego dalla minaccia di annientamento e distruzione, con l’intento di mantenere un equilibrio staticamente mortifero ma che dona sicurezza. Questo è un modo di porsi che, fondamentalmente, è portato avanti da chi è “fragile” (o si sente tale) e non ha un nucleo di personalità maturo e sviluppato, quindi forte e capace di confronto, di ricezione della critica, di auto-critica, di apertura.
Ecco, bisognerebbe mettere da parte il proprio egoismo e il proprio ego-centrismo. Ciò presuppone una certa maturità perché quando si è in grado di donare allora si è pronti veramente anche a ricevere. Sarebbe focale capire che nessuno sta mai così in “alto” da poter giudicare l’altro come “meritevole” o no del “dono”.
Un tale famoso che si chiamava Carl Gustav Jung diceva: “Si sopravvive di ciò che si riceve, ma si vive di ciò che si dona”. Il vero dono comporta l’entrata in una dimensiona altra caratterizzata dalla sospensione del giudizio e dalla reciproca volontà di comprensione. Una relazione terapeutica funzionale è caratterizzata dalla fiducia, dall’accoglimento dell’altro, dall’ascolto come incontro e dall’improvvisazione, molto più che dall’applicazione stereotipata di tecnicismi (se non estremizzati essi possono essere molto utili al terapeuta per “orientarsi”).
Il paziente è il portatore di pathos, cioè di una condizione personale e unica di sofferenza e difficoltà. Non ha senso vedere la relazione terapeuta-paziente come totalmente verticale e asimmetrica. Il terapeuta NON SA TUTTO, non è infallibile, non è un mago, non è un prete da cui andare a confessarsi che poi dà l’assoluzione, non è nemmeno un genitore o un partner. In verità potrebbe essere considerato un insieme di tutte queste cose, oltre al fatto che ha una preparazione di studi umanistica e scientifica molto lunga e articolata. Egli è un essere umano che ha fatto altresì un percorso personale di auto-osservazione e auto-analisi che l’ha portato a diventare una “buona guida” per l’altro che richiede il suo aiuto e intervento in una data situazione. Ricordiamo sempre che il mondo e ciò che c’è ancora da “scoprire” sono molto più di ciò che VEDIAMO, questo vale anche per le PERSONE. La realtà è co-costruita e con-divisa, quindi è necessario aprirsi sempre ad altre “prospettive”. Del resto, l’essere umano è portato a conoscere l’ignoto, a costruire mezzi per sondarlo, e a dare senso (direzione) e significato a ciò che esperisce e con cui entra in contatto. Egli si definisce e ri-definisce tramite processi di rispecchiamento nelle relazioni.
Gli individui sono esattamente come dei bellissimi mondi sconosciuti per i quali si è chiamati a costruire strumenti e a trovare delle “chiavi” per comprendere, mettersi nei loro panni, percorrere determinate vie ed aprire altrettante “porte”. Entrare nel mondo interiore di un altro individuo non deve essere visto solo come un dovere, come un compito da assolvere, ma come una straordinaria opportunità, un’occasione di crescita e arricchimento irripetibile.
Nel rapporto terapeuta-paziente intervengono sia processi di transfert che processi di controtransfert. Come già Freud scriveva in “Tecnica della psicoanalisi”(1911) il transfert sarebbe lo “spostamento” libidico che il paziente dirige sul terapeuta a proposito dei propri conflitti. In parole povere il paziente (o utente) proietta sul terapeuta ruoli reali o fantasmatici, voluti o immaginati, che si era trovato a vivere nella sua infanzia o ancor prima e che si erano depositati nel preconscio o inconscio. L’analista può diventare il padre, ma anche la madre, buono/a o cattivo/a, con tutte le ripercussioni in ambito emotivo e comportamentale che ne conseguono.
Il terapeuta diviene lo specchio verso il quale il paziente, proietta a livello inconscio le immagini che ha dentro e questo intacca le relazioni e i significati attribuiti a ciò che si comunica (la comunicazione è a due livelli: formale e oggettiva a livello superficiale, e simbolica e soggettiva a livello profondo). Il transfert può essere sia positivo sia negativo, a seconda della qualità del sentimento che il paziente tiene dentro di sé rispetto all’immagine che in quel momento viene proiettata sul terapeuta.
Come affermato anche da Melanie Klein in “Le origini della traslazione” (1952):
<<Il paziente, infatti, è portato inevitabilmente a far fronte ai conflitti e alle angosce che rivive nei confronti dell’analista avvalendosi degli stessi sistemi usati nel lontano passato. Ciò vuol dire che egli cerca di distaccarsi, (o attaccarsi) dall’analista così come cercava di distaccarsi dai suoi oggetti originari>>.
Carl Gustav Jung va ancora oltre e sostiene, contrariamente all’impostazione freudiana, che l’analista non sia affatto come uno schermo bianco. L’analista in quanto soggetto con il proprio vissuto e la propria storia di vita non è né può essere neutro e completamente oggettivo.
Scrive nel 1929:
<<Non giova affatto a chi cura difendersi dall’influsso del paziente, avvolgendosi in una nube di autorità paternalistico-professionale: così facendo egli rinuncia a servirsi di un organo essenziale di conoscenza. Il paziente esercita lo stesso, inconsciamente, la propria influenza sul terapeuta e provoca dei mutamenti nel suo inconscio: quei perturbamenti psichici (vere e proprie lesioni professionali) che sono ben noti a tanti psicoterapeuti, e illustrano clamorosamente l’influenza quasi chimica del paziente. Una delle manifestazioni più note di questo genere è il controtransfert indotto dal transfert.>>.
La dimensione terapeutica sarebbe il risultato della sinergia che si instaura tra “chi cura” e “chi chiede aiuto”, in un reciproco scambio di immagini inconsce che sia il terapeuta che il paziente hanno dentro. Compito del terapeuta è, prima di tutto, sentire la responsabilità del compito cui è chiamato e, non meno importante, fare un percorso di auto-analisi e consapevolezza dei contenuti e degli schemi “disfunzionali” vissuti che lui stesso potrebbe portare nel setting terapeutico, distorcendo, proiettando e IMPONENDO la sua VISIONE del caso in base alla SUA storia di vita e non a quella del paziente che ha richiesto il suo intervento. Questo errore di valutazione lo porterebbe decisamente “fuori strada” e sarebbe lesivo e controproducente per entrambe le parti in relazione
È vero che il terapeuta non può non influenzare in qualche modo il paziente, ma è anche vero che quest’ultimo non può non influenzare il terapeuta! E questo non si può assolutamente evitare o negare.
In ogni caso il cliente (o paziente), ha la possibilità di riconoscere e far “venire a galla” le immagini inconsce non integrate, illuminandole col faro della coscienza, grazie al lavoro dello psicoterapeuta-guida. Si capisce quanto sia importante la consapevolezza di tutto ciò nel terapeuta stesso e quanto sia basilare, non solo la sua preparazione e impostazione teorico-tecnica, ma soprattutto la conoscenza che ha di se stesso. È assolutamente irrinunciabile che lo psicoanalista (o il terapeuta in genere, a prescindere dall’orientamento della scuola nella quale si è formato) si sia sottoposto ad un’analisi personale. Ogni terapeuta così è un “guaritore ferito” che ha conoscenza, consapevolezza e familiarità con la sofferenza, il dolore, la crisi. In questo modo può porsi, così, con interesse e partecipazione “autentica” al vissuto del paziente, mettendo in secondo piano un tipo di impostazione formale, artificiosa e forzata.
Carl Gustav Jung comprese meglio di altri e per primo, la più profonda essenza dell’esperienza analitica vista come: «procedimento dialettico, un dialogo, un confronto tra due persone» (Jung C.G., 1935, pag. 7). Essa sarebbe un FENOMENO VIVO in cui ha luogo un CONFRONTO tra due PERSONE poste sullo stesso livello, la relazione da asimmetrica (tipica dell’impostazione freudiana classica) diviene simmetrica. Essendo un fenomeno vivo, è ben lungi dall’essere un mero metodo e dal poter essere ridotto a qualcosa di facilmente prevedibile o totalmente conoscibile.
La relazione terapeutica è come un vaso alchemico in cui è possibile il verificarsi della trasformazione e della ri-nascita di entrambi i partner della relazione. L’uno dona sempre qualcosa all’altro, e più si “cresce” durante il percorso, più si è pronti anche a ricevere e “venir fuori” senza timori o riserve. Dove c’è VITA c’è spazio per la con-divisione di emozioni, sentimenti, pensieri, per il cambiamento, per l’accoglienza, per la maturazione.
Con questo non si vuole certo dire che l’esito di un percorso di terapia sia sempre positivo, né si vuole renderlo idilliaco, anzi, è pieno di ostacoli, di difese e di conflitti da superare. L’importante è “mettersi in gioco” con la genuina volontà di venirsi incontro, a prescindere dall’esito. Il risultato conta molto meno della conduzione del percorso, che a volte può avere cambiamenti repentini di “rotta”.
La terapia non deve essere mai un’imposizione o un’ingerenza, anzi essa va limitata e tenuta a freno quanto più possibile. L’individuo che richiede l’intervento dello specialista deve sentirsi libero di esporre le proprie reticenze, le proprie impressioni, e anche eventuali critiche che il terapeuta deve saper debitamente “incassare”, per poi ri-trasformarle in qualcosa di buono che possa essere utile sia per sé che per il paziente in cura.
Le impressioni reciproche è bene siano sempre esposte, anche se in malo modo, perché è proprio dalla situazione conflittuale della “crisi” e dalla possibile “rottura” che il legame trova terreno fertile per rigenerarsi e ricostituirsi più forte di prima. Anzi, sarebbe onesto e opportuno mettere in luce come proprio le tempeste che rompono l’equilibrio omeostatico della relazione, permettano il superamento della delusione causata dalla “disillusione” e siano funzionali alla nascita di nuovi equilibri dinamici. Il processo terapeutico è fluido, mutevole, ed è proprio dalle cadute che si impara a rialzarsi e ci si rende conto dell’entità di potere della propria forza di volontà e delle proprie risorse.
Carlotta Cadoni
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