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Emozione e cognizione nell’emergenza

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Emozione e cognizione nell’emergenza

“Il fatto psicologico della colpevolezza collettiva è una tragica fatalità. Tutti sono colpiti senza discriminazione, il giusto come il colpevole, tutti coloro che, per un qualunque motivo, si trovano in prossimità del luogo in cui fu perpetrato il fatto spaventoso. Ovviamente, ogni uomo ragionevole e coscienzioso non tradurrà sconsideratamente la colpevolezza collettiva in colpevolezza individuale, che rende l’individuo responsabile senza colpirlo. Egli sarà in grado di distinguere il criminale dal “colpevole collettivo”. Ma quale è la percentuale di individui coscienziosi e ragionevoli, e quanti si impegnano a esserlo o a diventarlo?”
(C. Gustav Jung, Aspetti del dramma contemporaneo, 1945)

 

Marzo 2020, qualcosa di più grande di noi ci travolge, come un grandissimo tsunami sul pianeta Terra, stavolta non è un’onda, non è nemmeno una guerra con bombe e soldati, ma è una malattia onnipresente, cinica, invisibile, che sfrutta la RELAZIONE come rete per annidarsi e colpire.
Era da giorni che volevo scrivere un articolo sulla grave pandemia mondiale che ultimamente sta crescendo a macchia d’olio e sta mettendo in seria crisi la stabilità di persone e intere nazioni. La mia intenzione non è quella di parlare del Coronavirus, ormai se ne parla ovunque: su Internet, in televisione, sui giornali. Il mio proposito è quello di cercare di portare uno spunto di riflessione sull’incredibile inversione di rotta di atteggiamenti e abitudini di vita che sembra rendersi necessaria al fine di uscir fuori da questa tempesta senza troppi danni.

Non vi dirò che andrà tutto bene, come va di moda annunciare, vi dico che certamente molti di noi sopravviveranno a questo momento, ma le ferite e i traumi che si porteranno appresso saranno il reale banco di prova, il conto salato che presenterà questa catastrofe, questa guerra violenta e silenziosa che miete vittime ovunque ogni giorno. I numeri dei contagiati, dei malati e dei deceduti sono impressionanti, questo MALE non risparmia nessuno, nessuno di noi è immune, tutti siamo coinvolti direttamente e indirettamente, tutti siamo preoccupati per la salute e l’incolumità di noi stessi e dei nostri cari.

Questo evento è un durissimo colpo per l’onnipotenza dell’essere umano, colui che cerca di controllare tutto, che crede di avere il pieno potere su se stesso e sul sistema, spesso contribuendo a rovinarlo più che a salvaguardarlo e curarlo.
La moneta è il solo Dio che abbiamo seguito sino ad ora: i conti devono quadrare, gli accordi tra le banche, il debito pubblico, lo spread… Tutti termini che veicolano la nostra quotidianità e che hanno influenzato la nostra vita lavorativa e personale. Abbiamo investito, comprato titoli in borsa per settori altamente redditizi, come quello nucleare, delle armi e del petrolio, ma nel percorso abbiamo peccato di una forma di disattenzione grossolana, di esame di realtà, abbiamo perso ciò che realmente è basilare tutelare: la salute e l’incolumità delle persone. Non abbiamo investito sulla salute, sulla sanità, sulla ricerca, siamo stati schizofrenici e incauti, la nostra smania di potere ha lasciato che il vero MALE potesse non solo nascere, ma svilupparsi e mutare con tutta tranquillità, indisturbato, cauto, silenzioso e paziente. L’esercito potente e letale che schiera la natura è rappresentato dai microbi (batteri, virus ecc…).

Quando nomino la natura, è implicito il fatto che l’uomo vi sia inserito e ne sia in qualche modo artefice e spettatore.
Abbiamo creduto di essere intoccabili, abbiamo pensato che niente e nessuno ci potesse togliere le nostre libertà e i nostri diritti, certi che il pericolo potesse arrivare da culture diverse, da una bandiera politica o da un credo religioso, da un diverso colore di pelle, invece questo qualcuno è un NESSUNO, è un ESSERE SENZA VOLTO, non è un presidente, non è un re o un dittatore, è un qualcosa che condivide con noi tutto, può persino diventare tutt’uno col nostro corpo e tiltarlo sino alla morte, in silenzio e senza alcun spargimento di sangue.
Per evitare che il numero di positivi al virus cresca esponenzialmente in poco tempo e la situazione diventi totalmente ingestibile, i governi del mondo hanno varato misure per diluire e contenere i contagi. Queste sono necessarie affinché la maggior parte delle persone positive al virus che sono sintomatiche possano ricevere le dovute cure ospedaliere, nei dovuti modi e in tempistiche ragionevoli.
Quello che a tutti noi è richiesto veramente è la pazienza e l’evitamento della perdita della fiducia per l’ATTESA. Un’ attesa difficile, angosciante, dalla durata incerta e che giornalmente ci mette alla prova.

L’attesa ci fa precipitare improvvisamente nella dimensione del Vuoto in cui nessuno sa esattamente cosa stia succedendo e si sente travolto da eventi, troppo più grandi di lui, questo pone ognuno di noi in un sentimento di impotenza per cui non sappiamo come comportarci, alcuni reagiscono con difese primitive: negazione, spostamento, proiezione. Questo è il motivo per cui il comportamento di certe persone sembra essere irresponsabile, scellerato, incosciente, sembra non abbiano compreso la situazione di emergenza e la sua gravità, o che semplicemente se ne “freghino”, in realtà questi individui sono quelli psicologicamente più fragili, per cui vedere la realtà così com’è sarebbe per loro scontrarsi con un qualcosa che li porterebbe probabilmente a frammentare il proprio Io, debole ed evidentemente immaturo. Sono ferme ad un livello superficiale di comprensione, chiamato livello proposizionale nel modello SPAARS di Power e Dalgleish. All’interno delle teorie multilivello dell’emozione, in cui viene spiegata la relazione che intercorre tra emozione e cognizione, questi studiosi hanno introdotto nel loro modello dei livelli di elaborazione e processamento delle emozioni in relazione al nostro sistema di pensiero. Il livello più basso è proprio quello proposizionale, chiamato livello del “pensiero emotion free”, ovvero slegato dall’emozione, essenzialmente legato al significato letterale del messaggio ricevuto e nel quale vengono semplicemente immagazzinati modelli del mondo e del sé in relazione ad esso, questo è il solo livello che non è connesso ai sistemi di output delle emozioni e azioni, ciò significa che la persona non è riuscita a comporre tra loro le informazioni provenienti dall’ambiente (livello associativo intermedio) per poterle legare a sistemi di obiettivi personali al fine di creare un modello congruo della situazione attuale vissuta (livello schematico superiore), è proprio a questo livello che si genera l’emozione contestualmente “adeguata” e/o adattiva.

Molte persone stanno perdendo i propri cari, molte stanno lottando attaccati ad un respiratore tra la vita e la morte. In tutto questo calvario che si impone pesantemente sulla testa di tutti noi, a livello globale, si sta riscoprendo un’umanità forse quasi oscurata. Molte persone comuni che normalmente non fanno notizia perché il loro operato viene considerato banale e spesso non è valorizzato a sufficienza, come medici, infermieri, oss, ecc.. si stanno prodigando non solo nello svolgere il loro lavoro, ma nel farlo come missione di vita a difesa della vita. Ciò che probabilmente emerge in questi giorni difficili, è un’umanità che combatte, attiva e ricettiva, non passiva, persone comuni che sono straordinarie.
Ogni giorno nel mondo ci sono persone che soffrono per guerre, catastrofi ambientali, malattie incurabili (cancro, malattie genetiche, autoimmuni ecc..) che combattono una battaglia mettendoci anima e corpo, una battaglia che richiede ingenti risorse di energia. La fonte energetica più potente non è lo spirito di autoconservazione o sopravvivenza, all’uomo non basta poiché è un essere complesso non automaticamente assoggettato agli istinti.

La forza motrice senza cui non sarebbe possibile andare avanti è quella dell’amore. L’amore è la sola forza che ci fa combattere anche quando ci sono mille motivi per arrendersi, l’amore rende liberi di scegliere, determinati nell’affrontare le prove della vita.
Chi ama combatte, sceglie di farlo a prescindere dagli esiti delle proprie azioni. L’amore è uno sguardo di creazione del futuro, è progettualità, è flessibilità, dinamismo, l’amore è visionario poiché attraverso la sua lente possiamo vedere la possibilità, la rinascita, la ricostruzione, l’unione anche in mezzo alle macerie. La lente dell’amore dà colore anche quando tutto ciò che c’è intorno sembra non averne, anche se sembra che la bellezza si sia spenta, anche quando tutti gli sforzi sembrano vani.
Diventiamo strumenti d’amore, diventiamo catalizzatori di visioni, pensieri, azioni e cambiamenti positivi, scegliamo di portare un sorriso, una parola di conforto, offriamo il nostro ascolto a chi ne ha bisogno, scriviamo qualcosa di bello, dimostriamo il nostro affetto ai nostri cari, rendiamo la nostra presenza qua portatrice di speranza, possiamo farlo sia mettendoci in prima linea negli ospedali e nelle strutture sanitarie, sia stando a casa, possiamo sempre dare qualcosa agli altri.

Non sappiamo quando quest’onda violenta che ci sta travolgendo si placherà, quando questa tempesta si assesterà, ma cerchiamo di prenderci cura di noi stessi per poterci prender cura al meglio del prossimo. Non facciamoci prendere dal senso di allarme che ci porta ad agire senza riflettere, come impeto “animale”, non obbediamo come automi alla porzione del nostro cervello più antico, non assoggettiamoci passivamente. Pensiamo con la testa e facciamo che entri in scena anche il cuore che porta il buon senso.
Ciò che voglio dire è che per quanto si possa essere stressati, stanchi, oberati, tristi poiché siamo fragili non dobbiamo assolutamente agire d’istinto, ma dobbiamo cercare di mitigare il nostro stato di malessere e frustrazione concedendoci anche dei piccoli momenti per noi stessi, per auto-osservarci nel pieno rispetto del nostro operato e della nostra esistenza. Dobbiamo essere capaci anche di fare un passo indietro se necessario, o chiedere aiuto, non è affatto segno di debolezza ma l’ammissione cosciente della propria limitatezza umana.
Diamo il Tempo e diamoci Tempo, regaliamoci Possibilità a prescindere da ciò che perdiamo o che perderemo, come: persone care, lavoro, libertà più o meno considerate basilari. La fine di qualcosa non è la fine della vita, cerchiamo di prendere le dovute distanze da questa prospettiva lesiva.

Noi tutti in potenza siamo esseri sempre in grado di fare qualcosa per cambiare, è scritto nel nostro DNA, noi siamo geneticamente predisposti al cambiamento, siamo stati creati per costruire, per inventare, per creare qualcosa di nuovo… Qualcosa di migliore.

 

Carlotta Cadoni ©

Prendersi cura di chi si prende cura: il caregiver burden

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Prendersi cura di chi si prende cura:  il caregiver burden

Il percorso di malattia di una persona, conduce i suoi cari al far appello a tutte le risorse cognitive, emozionali e fisiche di cui dispongono, in modo tale da essere dei punti di riferimento e dei donatori di cure a pieno supporto delle necessità, dei bisogni e delle richieste della persona che vive un particolare momento di pathos e sofferenza nella sua vita. La malattia è un evento che sconvolge l’equilibrio e l’omeostasi familiare/informale e necessita di una ri-organizzazione a tutti i livelli: spazi fisici di esistenza che comporta una ri-sistemazione e/o rimozione di arredi, utilizzo “intelligente” di spazi domestici, idoneità dell’ubicazione della casa, rimozione delle barriere, ritmi di vita lavorativi e di sonno-veglia sfasati e irregolari, sviluppo di competenze nell’assistenza della persona, pulizia/disinfezione quotidiana, preparazione dei pasti e controllo del tipo di alimentazione, somministrazione regolare di farmaci, gestione delle eventuali medicazioni, acquisto di supporti e/o di apparecchi medici che ammortizzino la condizione del proprio caro come materassi anti-decubito, sedie a rotelle, deambulatori, apparecchiature per la somministrazione di ossigeno, amministrazione delle finanze e degli interessi economici del malato ecc.. Tutto ciò comporta una vera e propria RIVOLUZIONE, una grande capacità di flessibilità e adattamento, ridimensionamento e riconsiderazione delle progettualità di vita prossime e future, delle aspettative che coinvolgono, in modo più o meno eterogeneo, ogni caregiver impegnato direttamente nei compiti di cura.

La salute è una condizione di ben-essere sistemico a tutti i livelli, personale, interpersonale e sociale più ampio, perché non si può slegare la condizione di malattia di una persona dal contesto nel quale questa viene “ospitata” e vissuta. Dal contesto più micro come quello familiare in senso stretto, al contesto sociale più ampio come quello che riguarda le istituzioni e le forme di aiuto e sostegno formale (servizi sociali, Comuni, ASL, associazioni di volontariato ecc..).

All’interno del nostro sistema sociale, la famiglia assume un ruolo di sostegno fondamentale per il malato, rappresenta un contributo imprescindibile in termini di cura. La prima forma di cura è rappresentata appunto dall’affetto, dal supporto psico-emotivo che i caregivers informali donano alla persona che vive una particolare alterazione, più o meno grave e/o invalidante dello stato di salute.

Chi segue una persona che sta male, è un soggetto esposto a vari rischi dati dalla condizione di stress cronico al quale è sottoposto quotidianamente, dato da disturbi comportamentali, psicologici, fisiologici e dai cambiamenti cognitivi dei pazienti. Questi possono portare i donatori di cure a difficoltà a livello psicologico-sociale e a comportamenti altamente rischiosi per la salute.

Perché il caregiver è così importante?

Perché senza l’aiuto del caregiver, l’individuo assistito non sarebbe in grado di badare efficacemente a se stesso, il caregiving può essere definito come un vero e proprio capitale sociale.
Proseguiamo ora la trattazione approfondendo il costrutto multidimensionale di caregiving burden, il quale viene definito come:
il grado in cui la salute fisica e psichica, la vita sociale e lo stato economico del caregiver entrano in uno stato di sofferenza a causa dell’attività di cura, che richiede tempi, spazi ed energie per essere espletata.
Ad oggi, nel panorama scientifico internazionale, sono stati condotti numerosi studi sul fenomeno e sono stati messi appunto degli strumenti di valutazione standardizzati come il Caregiver Burden Inventory di Novak e Guest (1989), costituito da cinque sottoscale che suddividono il carico della cura in: carico di tempo, carico evolutivo, carico fisico, carico sociale, carico emotivo.
Il caregiving comporta una serie di conseguenze su vari livelli: salute fisica, benessere psicologico, funzionamento cognitivo. Lo stress costante e presente su tempi lunghi a cui il donatore di cure è sottoposto, può condurre a comportamenti poco salutari come la conduzione di uno stile di vita sedentario, una dieta povera, abuso di sostanze farmacologiche, sonno irregolare e disturbato. Inoltre, dal punto di vista più strettamente psicologico, studiosi come Pinquart e Sorensen (2003) hanno messo in luce come il prendersi cura di persone con gravi malattie abbia importante ricadute sull’umore (tendenza alla depressione), sulle funzioni cognitive (deficit di attenzione, velocità di elaborazione e memoria) e sull’immagine di sé come persona efficiente, sensibile e rispondente (senso di adeguatezza connesso con la self-efficacy).

Il caregiver vive in uno stato di costante preoccupazione, elicitata dall’evoluzione delle condizioni di salute della persona bisognosa di cure, questo aumenta i livelli di ansia e di allerta (iperarousal). Anche il livello di consapevolezza che il malato ha del deterioramento e della perdita di alcune sue funzioni, incide negativamente sulla salute di chi lo assiste.
Gli stressor del caregiver possono essere suddivisi in primari e secondari; tra quelli primari ritroviamo la perdita di funzioni fisico-cognitive del malato, l’aumento della frequenza dei comportamenti problematici (insofferenza, bassa tollerabilità, aggressività), ore settimanali impiegate nella cura diretta della persona, lavoro di intermediazione tra le strutture sanitarie e il malato (visite, controlli specialistici, ricoveri); tra quelli secondari vi sono il cambiamento della relazione tra malato e caregiver (es: da relazione genitore-figlio verticale a relazione orizzontale genitore-genitore) e interpersonali tra caregiver e altri parenti, familiari e/o altri membri connessi.
Nella letteratura scientifica esistono numerosi studi che cercano da un lato di individuare gli esiti del caregiving in termini di salute, qualità di vita e benessere e dall’altro di poter individuare quelle variabili che fungono da mediatori del processo e possono portare ad una variabilità individuale sotto forma di differenze di reazione in termini di vulnerabilità e risorse messe in atto per fronteggiare la situazione. Tra le variabili prese in esame possono pesare fattori che riguardano genere, età, grado di parentela, scolarità, etnia, e fattori più individuali di personalità, stili di attribuzione e di coping (fronteggiamento) utilizzati, compresi il senso di autostima e auto-efficacia. Le aspettative di cui è rivestito il ruolo di donatore di cure sono molteplici e pressanti, la persona si trova improvvisamente a dover ri-definire l’immagine di sé, il suo ruolo in più contesti di vita e rivalutare la sua attitudine al successo, che riguarda cioè l’essere in grado di portare a termine tutte le attività connesse ad una buona ed efficace assistenza di una persona in stato di salute compromesso e/o precario. È una continua ri-definizione di identità su più livelli.
In un recente lavoro di ricerca di Costanzo, Tognetti, Crestani e Baratto, si è riscontrato che il grado di caregiver burden riferito dai soggetti esaminati in un centro diurno, valutato con il Caregiver Burden Inventory (CBI), sembra essere associato principalmente a variabili del caregiver quali il genere, l’età e il grado di parentela, e al supporto ricevuto dal care-recipient (chi beneficia delle cure). Le dimensioni di burden che maggiormente influiscono sul carico assistenziale dei caregiver sono: il tempo richiesto dall’assistenza al proprio congiunto, il grado in cui il caregiver si sente tagliato fuori rispetto ai progetti e alle aspettative di vita, e l’impatto del carico assistenziale sulla propria salute fisica.
I caregivers costituiscono una risorsa preziosa per tutti: per le persone in stato di malattia, per l’intera società e per le istituzioni. Certamente sarebbe utile trovare modalità e sistemi che tutelino maggiormente queste figure, che riconoscano fattivamente il loro ruolo e ne facilitino la sua conduzione efficace. È importante preservare e custodire lo stato di salute di chi esercita il caregiving. È necessario che più servizi esercitino azioni di accompagnamento e mediazione, in modo che queste persone non si sentano “abbandonate” a loro stesse, ma guidate, informate, supportate. Prendersi cura quotidianamente di una persona in stato di malattia, è tutt’altro che semplice, come abbiamo visto nella trattazione può risultare talvolta estenuante e sfiancante, poiché richiede l’impiego di molteplici risorse fisiche e mentali.
Perché è così importante proteggere e dar supporto ai donatori di cure?

Perché un buon caregiving non è solo un semplice ammortizzatore sociale ma rappresenta un vero e proprio atto di amore e di coraggio, il combattimento della vita e della bellezza contro la malattia, la solitudine e la sofferenza. Essere un caregiver significa porsi dall’altra parte del muro dell’indifferenza e dell’egoismo, significa scegliere quotidianamente di combattere dure battaglie a prescindere dai risultati o dagli esiti.
Prendersi cura di chi si prende cura diviene allora per tutti un DOVERE non solo sociale, ma anche e soprattutto morale ed etico, il segno tangibile di un’evoluzione dell’umana coscienza.

 

Carlotta Cadoni ©

CHRISTMAS BLUES: ANSIA E TRISTEZZA DURANTE IL PERIODO NATALIZIO

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CHRISTMAS BLUES:  ANSIA E TRISTEZZA DURANTE IL PERIODO NATALIZIO

Clima freddo, buio presto, tante luminarie colorate e addobbi per le strade, la corsa ai regali, le pubblicità magiche della Coca Cola in tv… È il Natale che bussa alle porte!
Quanti di noi si saranno sentiti affascinati e avvolti dal clima di felicità, bontà, unione e condivisione celebrato in questo periodo dell’anno, e quante volte invece si saranno sentiti oppressi e frustrati dall’adeguamento un po’ forzato all’immagine del Natale perfetto che la società consumista e i media propongono da sempre?
Non c’è da stupirsi se affrontare il periodo delle feste natalizie possa essere fonte di ansia e stress per molti!

Quali sono i meccanismi che innescano il Christmas Blues?
Il Natale non racchiude in sé solo la storia personale di ciascuno di noi, ma anche e soprattutto una dimensione, connotazione e definizione sociale. È una festa che porta con sé un’immagine esagerata di buonismo, benessere economico, divertimento e gioia, unione familiare e solidarietà che crea false ed ipocrite aspettative verso se stessi e gli altri. Questa immagine stride con il reale significato del Natale, molto più profondo, che rimanda alla rinascita simbolica e all’uscita dal buio delle nostre “grotte” interiori. La risposta ansiosa e simil-depressiva rappresenta un segnale di rifiuto e rigetto verso tutto questo sistema iper-costruito, che non lascia quasi spazio all’espressione dell’unicità dei singoli.
Il Christmas blues può essere innescato da eventi che mettono alla prova l’equilibrio personale e sociale, come: un lutto, una separazione dal partner o dalla famiglia, una difficile e precaria situazione economica, la perdita del lavoro, una malattia ecc..

Quali sono le conseguenze?
Molteplici, a livello personale e sociale le più comuni sono:
mal di testa, mal di stomaco, tremori, disturbi del sonno, disordini alimentari, pensieri negativi, apatia, anedonia (incapacità di provare piacere), isolamento sociale, irritabilità, aggressività, difficoltà di concentrazione, deficit di memoria.

Come gestire ansia e tristezza nel periodo natalizio?
Ecco qui di seguito alcune “dritte” da tenere a mente:
• Focalizzazione sul presente: l’ideale è fare le cose senza troppe aspettative, dedicarsi ai propri hobby, fare passeggiate alla luce del sole, giardinaggio, pittura o qualsiasi altra attività che stimoli la creatività. Utile anche programmare un viaggio fuori porta, in modo da staccare dalla dimensione della “corsa” quotidiana, ritagliarsi degli spazi mentali e fisici per ritrovare se stessi.
• Sostituire i pensieri negativi e di mutua esclusione del tipo o/o con pensieri positivi e flessibili del tipo e/e; sostituire il “devo fare” con il “voglio fare” o “ mi piacerebbe fare” e non pensare ai risultati.
• Evitare che l’dea del Natale diventi un “chiodo fisso”, un’ossessione che spinge al desiderio di fuga.
• Dimenticarsi ogni tanto di se stessi: provare ad uscire di tanto in tanto dalla sfera personale ed egoica e fare qualcosa per l’altro, volontariato in ambito sociale, sanitario, di assistenza, dedicarsi ai familiari, ai figli, al partner e/o agli amici facendo qualcosa di inaspettato per loro.
• Parlare del disagio che si sente in questo periodo evitando chiusure ed essere aperti ad ascoltare quello altrui in modo che ognuno si senta compreso e accolto, emergeranno i vantaggi e la ricchezza della con-divisione reciproca.

 

In questo modo, ognuno di noi, nel suo piccolo potrà contribuire fattivamente a riabilitare e riportare in vita il vero spirito del Natale, illuminato dai colori della condivisione, del supporto reciproco, del coraggio, della presa di coscienza, della volontà di cambiamento, dei “nuovi inizi”.

Carlotta Cadoni ©

EMPATIA E COMPASSIONE: QUALE DIFFERENZA?

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EMPATIA E COMPASSIONE: QUALE DIFFERENZA?

Il confine di definizione tra empatia e compassione è solitamente confuso e sfumato, inoltre tende ad essere generalmente poco chiaro. La compassione (dal latino cum patior “soffro con”) è legata al concetto di PIETÀ ed è solitamente un sentimento di con-divisione di una sofferenza, per la quale si sente il bisogno di mettere in atto un’opera di alleviamento, più a livello simpatizzante.
Questo concetto è in qualche modo legato a quello di empatia, che nel teatro greco rappresentava il particolare rapporto di intensa partecipazione emotiva tra lo spettatore e l’attore recitante, oltre che essere una tecnica di IMMEDESIMAZIONE utilizzata dagli attori per l’interpretazione dei loro personaggi.
L’empatia è il mettersi “virtualmente” nei panni dell’altro, COME SE si fosse “DENTRO l’altro” e si assorbisse e prendesse la sua prospettiva. Ciò che la caratterizza è l’andare oltre il sentimento di simpatizzazione, e cercare di entrare “dentro” la persona per meglio COMPRENDERLA.
In tutto ciò si esclude ogni forma di simpatia, antipatia, e inoltre vi è la sospensione del GIUDIZIO.
Qual è, quindi, la differenza chiave tra le due?
La differenza sta nella modalità di approccio alla relazione:
la compassione porta alla necessità urgente di rispondere e dare soluzioni immediate e “utili” per risolvere e “tamponare” la situazione di difficoltà e/o sofferenza che l’altro della relazione pone come richiesta direttamente o indirettamente. Chi approccia in maniera compassionevole si sente a “disagio” nel percepire e sentire il pathos dell’individuo con cui si relaziona, e quindi si sente “chiamato in causa” come risolutore. Il provare “disagio” e pietà per la situazione dell’altro si assesta ad un livello relazionale di “superficie”, per cui si pone l’altro ad un gradino “inferiore”, come l’ individuo bisognoso di risposte e aiuto, e l’ascoltatore, in questo caso, è colui che possiede le risposte “giuste” ed è in grado di alleviare la tensione. La relazione è in senso VERTICALE;

l’approccio empatico, invece, già in partenza non presuppone alcuna risposta, l’empatia non dà risposte, né soluzioni o consigli. Essa segue la non direttività, il pathos dell’altro è accolto e accettato, e non vi è alcuna intenzione intrusiva di “soccorso” a tutti i costi. La sofferenza e il dolore sono esperienze umane, e come tali hanno naturale necessità di trovare spazio di espressione. L’empatia permette di entrare a contatto con il mondo interiore dell’altro, senza vederlo come un “problema” da risolvere, quanto piuttosto come una preziosa “opportunità” di conoscenza, introspezione e con-divisione dell’esperienza umana, come momento di arricchimento reciproco. L’empatia dunque diventa un PONTE, un canale attraverso cui connettersi al proprio e altrui vissuto.
Essa trasforma questo “contatto” assottigliando i confini tra le parti e stabilendo una relazione flessibile, dinamica, circolare e ORIZZONTALE. Gli individui che si relazionano sono sullo stesso “piano” in quanto ESSERI UMANI dotati di profonda, misteriosa e feconda interiorità.
In questo senso, quando ci mettiamo veramente in ascolto ed entriamo in empatia col prossimo, mettiamo in campo una forma di conoscenza altamente partecipata, conscia, presente e ricettiva con la MENTE, col CUORE e con la PANCIA.
Questa forma di con-tatto può rappresentare un rischio?
ovviamente, “sporcarsi le mani” è sempre un rischio ma è anche l’unica e principale chiave di conoscenza della realtà dell’esperienza umana nella vita, il RISPECCHIAMENTO CON L’ALTRO DA SÉ permette il ritrovamento di sé attraverso l’altro.
E questo è quello che si intende per esistere, dato che la parola latina “ex-sistere” significa “stare fuori”, il contatto tra esistenze consente di  uscire dal “guscio” trascendendo se stessi come enti dotati in sé di infinite possibilità di realizzazione.
L’ALTRO NON PUÒ ESSERE OGGETTIVIZZATO, altrimenti si rischia di cadere nella trappola della creazione di una sterile, superficiale e “artificiosa” ZOOLOGIA UMANA che poco ha a che fare con la complessità dell’essere-nel-mondo.

Carlotta Cadoni
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BREVI RIFLESSIONI SU PSICOLOGIA, ALCHIMIA E FISICA

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BREVI RIFLESSIONI SU PSICOLOGIA, ALCHIMIA E FISICA

Cos’è la psicologia?
Se rispondessimo a questa domanda dicendo che la psicologia è una scienza e il suo oggetto di studio è la mente e il comportamento umano, probabilmente questa sarebbe la risposta più “giusta” e generalmente accettata, dal mondo accademico e non… In realtà un’affermazione del genere può essere esatta e completa soltanto in piccola parte, non esaustiva e veritiera, persino fuorviante a seconda dell’ambito di applicazione e prospettiva di studio considerata.
Dato che la psicologia è molto ampia, forse sarebbe più corretto dire che è un insieme di scienze e prospettive metodologiche eterogenee che si uniscono tra loro per poter indagare, prevedere e conoscere il comportamento umano e ciò che ne è sotteso (cervello, sistema neurale, funzionamento cognitivo, dinamiche inconsce ecc..).
È auspicabile che la psicologia arrivi un giorno allo statuto di scienza “canonica”?
La risposta che darei a questo quesito è negativa dato che psicologia per sua “natura” può “precedere” le altre scienze e forse è proprio per questo motivo che, fortunatamente e necessariamente, non potrà mai rientrare tra le “scienze esatte”. È una sottile comprensione di ciò che siamo e di cui siamo i portatori consci e inconsci, che ci guida nella curiosità e scoperta di noi stessi e del mondo.
Nella scienza, o in quella pratica che definiamo tale, ancor prima della “vista” come senso e dell’ipotesi come processo cognitivo, c’è “qualcosa” di invisibile che inconsciamente guida la scoperta. È quel mistero immateriale di cui siamo i portatori che ci permette di conoscerci e conoscere.

Potremmo dire che dietro la scienza c’è l’uomo, e l’uomo ha in sé, come ogni elemento del creato, visibile e non, il mistero di una “guida energetica”, una forza intelligente che in qualche modo lo direziona, lo guida e, a livelli di consapevolezza più ampia, può riuscire in parte a manovrare. Questa guida segue la legge dell’ ARMONIA UNIVERSALE.
Per noi umani, questa forza intelligente si esprime attraverso immagini che potremmo chiamare archetipiche. Possiamo dire, a questo proposito, che l’archetipo rappresenta la struttura base attraverso cui ogni forma di esistenza e conoscenza è possibile, un “programma” che si potrebbe definire “DNA psichico”.
La struttura dell’archetipo non è presente solo nell’uomo ma permea il Tutto. È a questo che si rifà la teoria dell’inconscio collettivo di Carl Gustav Jung; l’archetipo è una potente realtà “slegata” dai rigidi schematismi della dimensione spazio/tempo, essa agisce costantemente su di noi, e noi esistiamo ed esperiamo la vita tramite essa. Ecco emergere più chiaramente i contatti tra psicologia analitica e fisica, e la corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo.
Le forze (la fisica insegna) si muovono seguendo delle direzioni che potremmo chiamare “vettori”. Una forza è caratterizzata da:

  1. intensità;
  2. direzione, ovvero la retta su cui essa agisce;
  3. verso in cui è orientata.

Una forza si manifesta nell’interazione reciproca di due o più corpi, sia a livello macroscopico, sia a livello delle particelle elementari.
Le forze sono, quindi, le cause intrinseche del cambiamento del moto dei corpi: sono in grado di mettere in moto un corpo che si trovava in stato di quiete, possono modificare il movimento di un corpo già in moto, oppure ricondurre il corpo in stato di quiete.
Alcune forze possiedono una struttura tale che il lavoro compiuto su un corpo si possa esprimere attraverso una funzione scalare, chiamata potenziale, dipendente dagli estremi dello spostamento e non dalla traiettoria. Esse sono chiamate forze conservative e ammettono un’energia potenziale.
In fisica, l’energia potenziale di un oggetto è l’energia che esso possiede a causa della sua posizione o del suo orientamento rispetto a un campo di forze. Nel caso si tratti di un sistema, l’energia potenziale può dipendere da come gli elementi che lo compongono sono disposti.
Si può definire l’energia potenziale come la capacità di un oggetto (o sistema) di trasformare la propria energia in un’altra forma di energia, come ad esempio l’energia cinetica.
Se in una regione di spazio sono presenti una qualche forza e un oggetto che è sensibile alla presenza della forza, l’energia potenziale (associata alla forza) posseduta dall’oggetto è definita come la differenza tra l’energia che esso possiede a causa della forza in una data posizione nello spazio e l’energia posseduta in una posizione scelta come riferimento. Spesso nella posizione scelta come riferimento l’energia potenziale è nulla.
L’energia potenziale è definibile come il lavoro necessario a portare a distanza infinita due molecole.
Questo si avvicina al concetto aristotelico di “seme in potenza”. Il seme è una pianta in potenza, cioè è una forma potenziale e non definitiva, che ha in sé tutta l’energia per svilupparsi e trasformarsi in essa. Così vale per l’essere umano, il bambino è il seme in potenza dell’adulto.
Ogni creatura, segue un tèlos nel suo percorso, ovvero tende verso una finalità, uno scopo, un adempimento, il compimento di un’intenzione intrinseca, quella per cui esso è così com’è.
Carl Gustav Jung, ad esempio, aveva riportato tutto questo nella sua prospettiva di approccio alla psiche umana, che lui stesso definiva come “empirista”, introducendo il concetto di individuazione. L’individuazione sarebbe lo scopo, la finalità, il compito di vita a cui ciascun essere umano tende necessariamente in quanto tale. Più che un obiettivo da raggiungere, l’individuazione è in realtà un processo a cui tendere in modo perpetuo volto all’avvicinamento dell’Io al nucleo psichico più profondo e ancestrale, il . L’archetipo del Sé rappresenta la totalità psichica, la trascendenza e l’unione degli opposti.
L’individuazione non a caso può essere spiegata, metaforicamente, attraverso le fasi di trasmutazione alchemica della Grande Opera: nigredo, albedo, rubedo.
Spesso, o quasi sempre, purtroppo, la variabile interveniente più importante nello studio di qualsiasi fenomeno è proprio quella più trascurata e ignorata, ovvero l’uomo stesso, l’osservatore del fenomeno.

In meccanica quantistica si suole affermare che “l’osservatore crea la realtà”.
L’ esperimento della doppia fenditura di Young mette in luce il dualismo onda-particella nella materia e dimostra come l’osservatore influenzi la realtà.
Se partiamo dal presupposto che gli esseri umani sono sistemi compositi di fotoni, l’atto stesso di osservare scatena il collasso della funzione d’onda e muta la struttura concreta della composizione del corpo.
In sostanza, potremmo dire che la COSCIENZA ORIENTATA è il FATTORE X che viene trascurato in tutti gli esperimenti, ma che spiega la maggioranza degli effetti osservabili.
Questo porta ad una straordinaria scoperta: ogni volta che osserviamo il mondo subatomico, ne provochiamo un’ alterazione.

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Data questa prospettiva, verrebbe da mettere seriamente in discussione la tanta millantata “oggettività” degli esperimenti scientifici data dal controllo delle variabili prese in esame per lo studio dei fenomeni, e anche qualsiasi principio di causalità.
Generalmente gli scienziati cercano il “motivo” di qualcosa, la causa di una manifestazione fisica… Ma avete notato che nelle parole “motivo”, “causa”, “conseguenza”, “legge” lo scienziato attribuisce già, inconsciamente, dei giudizi di valore al fenomeno in esame? La parola “legge” ad esempio, è un giudizio di valore, che poco ha a che fare col fenomeno in sé e che MOLTO ha a che fare con l’osservatore.

La VARIABILE REGINA che non consideriamo, e che incide fortemente sul fenomeno studiato siamo NOI STESSI e come siamo fatti.
Noi, come umani, sappiamo molto poco sulla nostra specie e su di noi come individui, inoltre ci impegniamo molto poco nell’approfondire questa conoscenza.
Dove c’è causa, noi ipotizziamo un inizio, un’origine, e se questo inizio in realtà non esistesse? Se Tutto ciò che siamo e che esperiamo non fosse altro se non il frutto di un mutamento perpetuo e necessario all’intero processo?
Dalla fisica sappiamo che tutto segue un “moto”, attraverso forze di varia intensità, direzione e verso; queste si organizzano seguendo “armonie” di vibrazione. Ogni cosa ha in sé sia la struttura della particella che l’andamento dell’onda e ogni essere cambia e si muove in modo spontaneo. Quando un sistema raggiunge l’apice del movimento caotico, automaticamente si ri-organizza in una struttura sempre più elaborata e complessa della precedente. Ne deriva che ogni forma esistente è “destinata” naturalmente ad una perpetua trasformazione che segue, però, sempre un’ “armonia” della totalità a cui tende, attraverso quella che potremmo chiamare energia potenziale.
Si potrebbe dunque intuire che, semmai una legge esistesse, sarebbe una e valida per ogni forma di vita, cioè la LEGGE DELL’ARMONIA, tutto sarebbe come un enorme e sconfinato spartito musicale.
È proprio questo l’assunto a cui molto probabilmente erano già arrivati gli alchimisti al loro tempo. Nell’antica alchimia non c’era separazione tra materiale e immateriale, e tutto seguiva un processo di trasformazione, detto TRASMUTAZIONE.
Noi “moderni” abbiamo invece creduto che la materia fosse solo esclusivamente quello che potevamo osservare direttamente, ma evidentemente c’è tanto altro.
Una cosa è certa: sino a che non avremo un po’ più chiaro cosa sia l’essere umano, potremo fare tutte le più grandi scoperte del mondo ma forse non arriveremo mai a comprendere ed abbracciare le cose in maniera cosciente e capirne l’importanza. Ecco perché l’evoluzione esteriore dovrebbe essere accompagnata da un’evoluzione interiore, poiché non esiste divisione tra le due.
Forse, dovremmo essere più umili e critici verso ciò che produciamo, e più curiosi verso il mistero che noi stessi siamo e di cui siamo i portatori.
Inoltre, seguendo l’assunto che ogni esistenza si trasforma in modo perpetuo cambiando forma ma mantenendo la sostanza, in realtà, ogni scoperta nuova che facciamo lo è veramente?
Non possiamo saperlo attraverso la ragione, ma quasi certamente no.
Non c’è mai nulla di completamente e puramente “nuovo”, “vergine”, “inedito”.
C’è con tutta probabilità, invece, un’infinita possibilità di rinnovazione dell’esistente in relazione all’esistito. È esattamente ciò che succede anche nella nostra psiche, le immagini archetipiche mutano di epoca in epoca poiché soggette, nella forma, alle influenze di un dato spazio/tempo, ma l’archetipo che le sottende resta immutabile di epoca in epoca.
Lo stesso vale per il corpo biologico e le leggi del DNA alle quali siamo imprescindibilmente vincolati. E questo può essere il paradosso dell’esistenza in un corpo che si è fatto materia “densa” ad una certa vibrazione.

Già riuscire ad afferrare ciò, è un grande passo avanti, ma ancora c’è tanto su cui riflettere…
Dar vita a cose antichissime in un’epoca nuova significa creare. È la creazione del nuovo, ed essa mi redime. Il compito è partorire ciò che è vecchio in un tempo nuovo. L’anima dell’umanità è come la grande ruota dello zodiaco che rotola sulla via. Ogni cosa che arriva in costante movimento dal basso verso l’alto, una volta era già in alto. Non c’è parte della ruota che non ritorni. Perciò tutto ciò che è stato tornerà a riaffiorare, e quello che è stato sarà di nuovo.
(Carl Gustav Jung. Il Libro Rosso, p.311)

 

Carlotta Cadoni
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IL FEMMINILE: TRA ALCHIMIA E GENETICA

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IL FEMMINILE: TRA ALCHIMIA E GENETICA

Nell’antica alchimia, il compito fondamentale dell’alchimista “cercatore” non era solo quello di adoperarsi per trasformare i metalli vili in “oro” ma cercare di “elevare” se stesso (in quanto uomo) tendendo a quella che in psicologia analitica (o complessa) prende il nome di INDIVIDUAZIONE.

La materia inanimata era creata e viveva grazie alla stessa “sostanza” che permeava quella animata e la scoperta del processo di trasmutazione dei metalli vili nell’oro filosofico era possibile e auspicabile tanto sulle pietre quanto sugli esseri umani, senza distinzione alcuna.

La corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo faceva sì che ci fosse un tentativo di studio per “analogia” tra la condizione umana dell’alchimista e quella della materia inanimata.

Originariamente, le fasi della Grande Opera erano quattro:

  • NIGREDO (OPERA AL NERO) chiamata anche melanosi, associata all’elemento terra e alla putrefazione;
  • ALBEDO (OPERA AL BIANCO) chiamata anche leucosi, associata all’elemento acqua e alla distillazione o calcinazione;
  • CITRINITAS (OPERA AL GIALLO) chiamata anche xanthosis, associata all’elemento aria e alla combustione;
  • RUBEDO (OPERA AL ROSSO) chiamata anche iosis, associtata all’elemento fuoco e alla sublimazione o fissazione.

L’intero processo poteva avere luogo solo se, ovviamente, la materia era contenuta in uno SPAZIO,un VAS.

Il VAS era la MATRICE, l’UTERO, Il VUOTO spazio infinitamente fecondo nel quale risiedono caos e cosmos , sede della vita e del dinamismo della trasformazione.

Chiamato anche VAS HERMETIS (vaso ermetico) è considerato la “materia prima” imprescindibile dell’esistente, è il simbolo dell’anima mortale e terrena, contenitore dell’esistenza in divenire.

Il VAS alchemico è, dunque, la MATERIA PRIMORDIALE attraverso cui “TUTTO” ha preso forma. Ciò è connesso al potere insito nel femminile di contenimento, maturazione e creazione. È come l’utero cavo e protettivo della madre.

Si pensi un po’ alla forma dell’utero, ricorda quella di un vaso capovolto col collo rivolto verso il basso. Nell’antica alchimia i simboli dell’elemento acqua e dell’elemento terra erano rappresentati da un triangolo rovesciato con il vertice rivolto proprio verso il basso.

 

 

La necessità umana di percorrere la strada per l’individuazione è rappresentata dall’ acrostico alchemico del V.I.T.R.I.O.L.  che sta per:

“VISITA INTERIORA TERRAE RECTIFICANDO INVENIES OCCULTUM LAPIDEM”

“VISITA L’INTERNO DELLA TERRA E RETTIFICANDO TROVERAI LA PIETRA NASCOSTA”

Esso è la sintesi dello scopo fondamentale dell’alchimista “cercatore”, lo invita, come essere SEPOLTO dalla “TERRA”, a SCAVARE in essa e VISITARLA, esplorandola e rettificandola, come sola e UNICA VIA per raggiungere e ri-trovare la “pietra nascosta”. L’acrostico del V.I.T.R.I.O.L. riporta l’attenzione sul tema della DISCESA NEGLI INFERI, del viaggio attraverso la MORTE, strettamente insita nella nostra condizione di masse energetiche condensate e incarnate sulla Terra.

La trasmutazione della materia era un processo lungo e complesso il cui fine era quello di purificarla e trasformarla in oro. A tal fine era necessaria l’azione di un acido molto potente (il vetriolo) capace di sciogliere anche i materiali più “ostici” e “duri” e dar luogo alla mutazione della materia, spesso trasformandola in modo radicale.

Secondo il VIAGGIO ALCHEMICO infatti se prima non si va incontro alla MORTE, addentrandosi nelle viscere della TERRA che ci ospita e ci seppellisce, non ci si potrà riscoprire UOMINI VIVI.

 

 

Cosa ci dice la genetica al riguardo?

La differenziazione sessuale nei mammiferi ha luogo nel momento della fertilizzazione con la produzione di due tipi di zigoti:

uno con un paio di cromosomi sessuali XX (femmina) e uno con un paio di cromosomi XY (maschio). L’informazione genetica disposta sui cromosomi sessuali è ciò che normalmente determina se lo sviluppo sarà in direzione maschile o femminile. Non bisogna però pensare che vi siano DUE PROGRAMMI GENETICI DISTINTI, uno per lo sviluppo femminile e un altro per quello maschile.

Lo sviluppo sessuale segue un UNICO PRINCIPIO ORIGINARIO, ovvero:

NOI TUTTI SIAMO GENETICAMENTE PROGRAMMATI PER SVILUPPARE CORPI FEMMINILI.

Ebbene sì! Gli individui geneticamente maschi sviluppano corpi maschili perché il loro programma di sviluppo originario femminile viene ANULLATO, SILENZIATO.

 

 

 

Questo ERMAFRODITISMO GENETICO ci riporta alla figura di HERMES, MERCURIO.

È curioso notare come Mercurio simboleggi, per l’alchimia occidentale, il rebis (res-bis: la doppia cosa), il monstrum hermaphroditus, l’unione degli opposti, il principio solare maschile che si fonde e si sposa con quello lunare femminile.

Hermes è il messaggero, il comunicatore, il mediatore tra il cielo e la terra, tra la materia e lo spirito. In quanto “collante” e tramite si può assimilare all’etere filosofico, ovvero alla sostanza che si pensava permeasse tutto l’universo.

Si lega all’elemento ARIA, l’aria che alimenta e mantiene vivo il fuoco, è la stessa che deriva dalla trasformazione dell’acqua allo stato liquido, elemento legato archetipicamente al femminile e all’inconscio, è il primo elemento con cui entriamo a contatto, pensiamo al liquido amniotico.

Riunisce in sé i principi opposti e complementari: luce e ombra, femminile e maschile, nascita e morte. È il principio universale della natura, ciò per cui tutto si regge e da cui tutto ha origine. Il suo simbolo è il caduceo, il bastone con i due serpenti intrecciati a spirale, utilizzato ampiamente nella medicina e nella farmacia, molto similare alla forma elicoidale del DNA.

 

Il mercurio in alchimia era considerato assieme allo zolfo, l’elemento primordiale da cui ogni metallo ha avuto origine. Il mercurio ha in sé tutte le qualità e le declinazioni possibili della materia. È curioso notare come nella lingua e nella cultura indù la parola equivalente ad “alchimia” sia “rasavatam” che significa “via del mercurio”.

 

Il metallo del mercurio fu associato alla figura del Dio Mercurio (Hermes) e al relativo pianeta, il cui simbolo riunisce in sé la luna, il sole e la terra. Questi tre sono rispettivamente rappresentati dalla coppa/calice all’apice (luna, anima femminile, argento), dal cerchio centrale (sole, spirito maschile, oro) e dalla croce alla base (terra, materia, sale). La luna, collegata al femminile, rappresenta sia l’anima inconscia dell’uomo che la coscienza della donna.

Il mercurio è associato all’acqua, alla luna, all’argento, alla resistenza, alla fluidità, plasticità e vitalità. Con l’aiuto dello zolfo e del sale esso passa dallo stato liquido (che costituisce l’elisir di lunga vita) allo stato solido, mediante cui diviene possibile la realizzazione delle nozze alchemiche per ottenere così l’oro filosofico.

 

 

 

Carl Gustav Jung in Mysterium Coniunctionis, sul tema del femminile simbolico dell’antica alchimia, aveva messo in luce come l’OPERA AL BIANCO (ALBEDO) del processo di trasmutazione alchemica rappresentasse il lato passivo del mercurio.

La “COSCIENZA FEMMINILE”, in senso simbolico, non ha nulla a che vedere con la logica, la razionalità e la sua costruzione ontologica in senso sociale e storico. È piuttosto una modalità di approccio, visione e interpretazione della realtà, una LENTE SPECIALE in grado di “mettere al mondo” una visione di esso radicalmente differente da quella monolitica, conformista e tesa al livellamento delle differenze e all’omologazione cieca dell’attuale filosofia e cultura occidentale.

La coscienza femminile dà un’inedita chiave di lettura sulla vita in divenire, accetta e concepisce la differenza e il paradosso, valorizza la dualità e contemporaneamente incoraggia tenacemente la coniunctio.

Se questo tipo di coscienza avesse spazio e modo di “tornare a galla” porrebbe fine alla separazione tra MENTE e CORPO, tra NATURA e CULTURA, tra SOGGETTO e OGGETTO di conoscenza. Essa favorirebbe l’integrazione di aspetti psico-corporei dell’esperienza umana visibile e non visibile, dando a quest’ultima pari libertà e dignità di esistenza, in modo da non dover ricercare ALTROVE o FUORI DI NOI ciò che invece c’è DENTRO di noi e di cui siamo portatori oltremodo inconsapevoli e irresponsabili.

Il femminile, legato al corpo, all’anima mortale, al moto emotivo e alla materia, ha subito nel corso della storia e dell’instaurarsi delle istituzioni religiose ufficiali un’opera di oscurantismo culturale e ideologico, che ha permeato ogni campo del sapere e della conoscenza, compresa la scienza. Ciò, più che un’evoluzione, ha contribuito a creare una vera e propria PARALISI della conoscenza e perdita della nostra integrità umana, come esseri portatori di PARADOSSO e DUALITÀ.

Il femminile è stato ESTROMESSO, convertito dalle scritture nel MALE, il corpo e le sue pulsioni sono state DISSOCIATE, vissute nel senso di colpa ed etichettate come “peccati”, svilite, umiliate, “sporcate”.

Il femminile (mercurio, Hermes) è stato slegato dalla Terra (sale, vita mortale) e dal maschile (zolfo, vita ultraterrena).

Il problema fondamentale è che se non si riscopre e riporta il mercurio sulla Terra, si rischia di PARALIZZARE in partenza l’essere umano, condannandolo ad uno stato di morte perenne, senza alcuna possibilità di evoluzione, trasformazione e “redenzione”/“purificazione” per la ri-scoperta e ri-costruzione di se stesso.

Qualsiasi cosa crei l’uomo che non segue il moto naturale e anzi, lo ignora e verso cui c’è solo desiderio di possesso e controllo, rischia non solo di essere sempre più imperfetto, ma anche dannoso e pericoloso.

Abbiamo il compito di ritrovare l’interesse per la materia come MATERIA PRIMA per comprendere meglio noi stessi, partendo proprio da noi stessi per farlo.

È un’operazione sciocca e controproducente continuare a staccarla e dissociarla da noi, come un qualcosa da studiare asetticamente, quasi come estranea, come se non si “esprimesse” su di noi e come noi.

Come è possibile iniziare a riattivare il processo di ri-scoperta e immissione del femminile nel nostro spazio-tempo?

Accogliendo l’invito espresso dal V.I.T.R.I.O.L, ovvero riponendo l’attenzione principale sull’Ombra, il rimosso, non relegandolo sul passivo, quanto piuttosto considerandolo una potentissima FORZA ATTIVA che risiede in noi, oscura e inconscia, non in rapporto con la ragione, gravida di rischi così come di possibilità di conoscenza illimitate, che occorre rimettere in comunicazione col nostro piano di coscienza.

All’interno dei testi alchemici il paradosso del mercurio è così profondo che esso viene descritto come un essere sia materiale che spirituale ; Jung stesso infatti descriveva la natura dell’inconscio come “psicoide” ovvero non completamente ed esclusivamente psichica ma anche organica.

“Se non rendi incorporei i corpi e non rendi corporee le cose prive di corpo, il risultato atteso non ci sarà”

La forza che tiene insieme l’interezza del reale è la sympatheia, espressa all’interno della tabula smaragdina (tavola smeraldina) di Ermete Trismegisto.

All’interno di essa si ritrova la legge di corrispondenza e indifferenziazione tra microcosmo e macrocosmo per cui ciò che sta in alto è come ciò che sta in basso e viceversa.

TUTTI NOI, ATTRAVERSO IL VEICOLO PREZIOSO DEL NOSTRO CORPO, SIAMO UNA RIPRODUZIONE SU SCALA MICROCOSMICA DI DINAMICHE MACROCOSMICHE UNIVERSALI.

Senza l’anima lo spirito è morto come la materia, poiché entrambi sono astrazioni artificiali, mentre nella concezione originaria lo spirito è CORPO VOLATILE, e LA MATERIA NON È INANIMATA.”

(C.G.Jung, R. Wilhelm, Il segreto del filo d’oro, in Studi sull’alchimia. Opere, vol.XIII, Boringhieri, Torino 1998, p.60)

 

A livello psichico la materia mercuriale è l’ INCONSCIO COLLETTIVO. Questo corrisponde esattamente alla nostra realtà genetica a livello di DNA, il nostro programma genetico originario è “femminile” e porta con sé l’informazione genica di tutte le generazioni precedenti alla nostra e di tutta l’umanità, valicando i confini della vita in uno spazio-tempo mortale.

Ad ognuno di noi non resta che prendersi o meno la responsabilità di esser uomo per ri-scoprirsi e ri-trovarsi tale.

 

Carlotta Cadoni

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CRISI ECONOMICA E NEUROSCIENZE: COME LA POVERTÀ CAMBIA IL CERVELLO

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CRISI ECONOMICA E NEUROSCIENZE: COME LA POVERTÀ CAMBIA IL CERVELLO

Quali sono gli effetti sul nostro cervello del vivere in particolari condizioni di povertà socio-economica?

Ci dà risposta una recente ricerca condotta dall’università di Harvard

 

Sembra proprio che lo stress prolungato scaturito da problemi economici interferisca col nostro “circuito decisionale”.

Una recente ricerca americana, commissionata da Economic Mobility Pathways (EMPath), una no profit di Boston che dal 2006 lavora nella promozione di strumenti sociali contro la povertà, mette in luce un collegamento diretto tra meccanismi neuronali che coinvolgono sistema limbico e corteccia prefrontale e alcune contingenze pratiche della vita, come le condizioni socio-economiche in cui ci si trova.

 

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Di cosa sono responsabili il sistema limbico e la corteccia prefrontale?

 

A grandi linee, si può dire che la corteccia prefrontale (parte più “recente” del cervello) medi e sia responsabile delle capacità di problem-solving, goal-setting, e task execution; presiede quindi alla pianificazione dei comportamenti, alla capacità di prendere decisioni ed eseguirle e, secondo molti studiosi, anche all’espressione della personalità.

Essa lavora in concerto col sistema limbico (parte più “antica” del cervello), che si trova nella parte centrale dell’encefalo, precisamente nel tronco encefalico. Il sistema limbico si occupa del processamento dei segnali emotivi e dell’elaborazione delle risposte emotive, in parte per via del suo collegamento con la memoria a lungo termine.

Un ampio corpus di ricerche, dopo aver analizzato il cervello tanto di adulti quanto di bambini che vivono in condizioni di povertà, ha evidenziato che:

 

QUANDO UNA PERSONA VIVE A LUNGO IN CONDIZIONI DI POVERTÀ, DAL SISTEMA LIMBICO PARTONO COSTANTEMENTE MESSAGGI DI PAURA E STRESS CHE POI VENGONO INVIATI ALLA CORTECCIA PREFRONTALE. QUEST’ULTIMA INFLUENZEREBBE LA CAPACITÀ DI UN INDIVIDUO DI RISOLVERE PROBLEMI, RAGGIUNGERE OBIETTIVI, E FRONTEGGIARE LE SITUAZIONI DI VITA QUOTIDIANA E VARIE RICHIESTE AMBIENTALI NEI MODI PIÙ EFFICACI POSSIBILI.

 

E’ vero che questo può succedere a chiunque ad un certo punto della propria vita, indipendentemente dalla classe sociale. E’ vero però anche che le persone in condizione di povertà, rischiano di essere “abituate” a dover fronteggiare uno stress continuo e duraturo nel tempo. Questo può generare condizioni di strain (stress negativo) che più facilmente possono portare a modi di agire e re-agire alle richieste ambientali disadattivi e disfunzionali. Lo stress, inoltre, sarebbe spesso acutizzato dal dover combattere contro i pregiudizi della società nei confronti di chi è più povero.

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La scienza è chiara su questo: l’energia cerebrale utilizzata per far fronte alle paure e agli stressors di tutti i giorni,riferiti al soddisfacimento dei bisogni primari (sbarcare il lunario, vestirsi, potersi permettere un’istruzione ecc…), viene completamente “assorbita” da queste impellenze e diventa inefficiente e non utilizzabile per cambiamenti di prospettiva, di valutazione delle situazioni e di se stessi in relazione ad esse. Ne risentono inoltre l’immagine di Sè, l’autostima e l’autoefficacia, oltre che le abilità di problem solving e di insight.

 

Elisabeth Babcock (presidente dell’ EMPath) sostiene che, in questo modo, le persone in povertà tenderebbero a divenire vittime, col tempo, di un vero e proprio “CIRCOLO VIZIOSO” che si auto-rinforzerebbe (come un serpente che si morde la coda) basandosi sull’ idea per la quale le persone povere non possono cambiare e migliorare le proprie condizioni di vita.

Lo studio più recente in merito, afferma che questo meccanismo passa dall’essere un evento occasionale che inibisce temporaneamente alcune facoltà intellettive al diventare una routine che trasforma il cervello dei soggetti interessati.

 

 

È possibile interrompere questa spirale negativa che si auto-alimenta?

 

La risposta è: ! E’ stata spiegata da Atlantic Al Race, condirettore del Centro di sviluppo del bambino dell’Università di Harvard:

«È vero che gli stress e i rischi costanti cui la povertà espone cambiano il cervello delle persone. Ma è vero anche che le sezioni cerebrali interessate dal fenomeno preso in esame si caratterizzano per essere particolarmente “plastiche”, cioè possono essere rafforzate e ri-sviluppate in modo positivo anche nell’età adulta».

 

Facendo leva sulla plasticità neurale, la funzione di “rigenerazione” e “riorganizzazione” dei circuiti neurali del cervello, presente anche in età adulta, gli studiosi hanno rilevato che questi modi appresi e disadattivi di immagine di sé, problem solving e task execution che col tempo hanno trasformato il cervello, possano essere ri-costruiti e “corretti” tramite tecniche di psicoterapia rivolte a singoli adulti, minori e ad interi nuclei familiari.

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Ha detto Elisabeth Babcock:

«Il segreto per rompere il meccanismo è aiutare queste persone a portare a termine anche un solo obiettivo che non credevano di poter raggiungere».

 

Gli stessi autori della ricerca infatti spiegano che questa spirale può essere rappresentata metaforicamente come:

«Un ponte in cui basta far venire giù un pilastro per fare cadere l’intera struttura».

Si potrebbe concludere che le capacità che abbiamo di ri-generazione e cambiamento sono infinite, e queste sono date dalla complessità che ci caratterizza.

La stessa complessità che ci porta a cadere in spirali negative, è la stessa che ci porta a rialzarci e guardare con “nuovi occhi” noi stessi e il mondo.

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Carlotta Cadoni

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LO STRESS

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LO STRESS

PICCOLA LENTE DI INGRANDIMENTO SULLA PROSPETTIVA PSICONEUROENDOCRINOIMMUNOLOGICA

 

Nel corso degli anni, gli studi e le ricerche sullo stress hanno fatto grossi passi avanti.

Il “PADRE” indiscusso della concettualizzazione scientifica dello stress è senza dubbi Hans Selye. Egli ne diede una prima definizione psicologica, andando oltre la semplice riconduzione di esso allo “sforzo” e alla “fatica”.

All’interno della sua teoria, lo stress sarebbe una risposta aspecifica di un organismo a vari stimoli esogeni ed endogeni (psico-sociali e bio-fisici).

Lo stress, in questo senso, perde la sua connotazione negativa e diventa un modo di re-azione “normale” di un essere collocato psico-fisiologicamente nel mondo empirico, scientificamente descrivibile e studiabile.

Selye, a questo proposito, parlò di SINDROME GENERALE DI ADATTAMENTO, costituita da tre fasi:

ALLARME, RESISTENZA, ESAURIMENTO.

La teoria è basata sull’assunto che, naturalmente, un organismo è portato alla creazione e al mantenimento di una condizione omeostatica.

 

Cos’è l’omeostasi?

È una condizione di equilibrio psico-fisico dinamico che permette il corretto funzionamento dell’organismo e ne consente l’adattamento. Quanto più questo equilibrio è fluido e capace di costruirsi e ri-costruirsi, tanto più un essere è capace di adattarsi. Questo vale sia a livello anatomo-fisiologico che a livello psicologico e sociale.

Siamo quotidianamente “bombardati” da vari stimoli a noi interni ed esterni, e il nostro equilibrio è costantemente messo alla prova.

Per essere degli UMANI ADATTATI E ADATTABILI dobbiamo diventare dei “BRAVI EQUILIBRISTI”, sempre pronti a spostare il BARICENTRO per NON CADERE! E col tempo e l’esperienza vissuta, sviluppiamo delle vere e proprie tecniche, delle “strategie” per far fronte ai vari ostacoli e alle vicissitudini dell’esistenza, ognuna delle quali è un potenziale e/o effettivo “destabilizzatore”.

Questi “agenti destabilizzanti” vengono chiamati STRESSORS in gergo tecnico.

Gli stressors sono degli stimoli che in sé non sono né positivi né negativi.

È l’interazione con un organismo che li definisce in un senso o in un altro.

Essendo agenti stressogeni, alzano in noi il livello di allerta e il COME li vediamo e li percepiamo, in relazione alla VALUTAZIONE COGNITIVA che facciamo in merito alle RISORSE interne ed esterne di cui disponiamo per fronteggiarli, influenza la nostra risposta a livello psicologico, fisico e comportamentale.

Nella FASE DI ALLARME si accende il “CAMPANELLO” interno dell’ ALLERTA; essa comporta dei cambiamenti a livello biochimico ed endocrino, stimolando la produzione di NORADRENALINA, ADRENALINA e GLUCOCORTICOIDI, tra cui il CORTISOLO, l’ormone dello stress per antonomasia. Questa fase prepara l’organismo a re-agire ad uno stimolo, aumentando la frequenza respiratoria e cardiaca, tutti gli organi e i tessuti, compreso quello muscolare, vengono OSSIGENATI al massimo per essere pronti ad un’eventuale risposta di AZIONE o FUGA.

Nella FASE DI RESISTENZA l’organismo si prepara a DIFENDERSI da un’eventuale “minaccia” e si mettono in atto una serie di strategie elaborate a livello cognitivo che permettono di fronteggiare le varie situazioni di vita. Esse vengono chiamate STRATEGIE DI COPING, e possono essere molteplici (es: si può scegliere di spostare l’attenzione dallo stimolo stressogeno ad un altro più “controllabile”; oppure lo si può affrontare per analogia con un’altra situazione “simile” che si è verificata in passato e per la quale quella strategia aveva portato risultati positivi; si possono utilizzare tecniche di rilassamento, ecc..). Se la resistenza ha successo si verifica l’ADATTAMENTO dell’organismo e la creazione di un NUOVO EQUILIBRIO; se invece questa FALLISCE, l’organismo può cadere nello stato di ESAURIMENTO (terza ed ultima fase del modello di Selye). In essa si verifica il CROLLO DELLE DIFESE e l’incapacità di re-agire allo stressor e ri-creare un’omeostasi funzionale e “sana”. Si verifica più frequentemente quando, in media, la situazione stressogena si porta avanti per più di sei mesi, quando gli stressors agiscono A LUNGO TERMINE.

L’attivazione a lungo termine dell’ASSE IPOTALAMO-IPOFISI-CORTICOSURRENE porta ad un aumento di ormoni corticosurrenali in circolo, che può avere conseguenze anche GRAVI col tempo.

 

In un mondo come il nostro, iperveloce, individualista, improntato sul SUCCESSO dell’UOMO CHE SI FA DA SÉ (self made man) cadere nell’esaurimento non è poi così raro e difficile!

 

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Quali rischi si corrono?

I rischi sono molteplici: disturbi cardiovascolari in primis (ipertensione, rischio di infarto), disturbi endocrini e ormonali, disordini metabolici, disturbi del sistema immunitario (linfoadenopatia reattiva cronica, esposizione all’ insorgenza di reazioni infiammatorie e malattie auto-immuni), disturbi del sonno, gastrici (gastrite, reflusso gastroesofageo, sindrome del colon irritabile), cognitivi (abbassamento della concentrazione, disturbi dell’attenzione, deficit di memoria) ecc..

Dagli studi più recenti sullo stress, pubblicati peraltro dalla rivista PNEI NEWS, si è infatti riscontrato un collegamento importante tra stress e SISTEMA MIOFASCIALE, che coinvolge OSSA, ARTICOLAZIONI, MUSCOLI, TESSUTO ADIPOSO, ORGANI INTERNI, MENINGI.

Qual è l’importanza del SMF?

Il SISTEMA MIOFASCIALE, in condizione di stress funzionale, permette di combinare la meccano-biologia dell’organismo, agendo soprattutto sull’ IMMUNITÀ UMORALE EXTRACELLULARE Th2, con azione prettamente ANTINFIAMMATORIA.

 

Cosa succede quando lo stress è CRONICO?

Succede che l’IMMUNITà Th2 assume la FUNZIONE INVERSA, ovvero INFIAMMATORIA!

Questa risposta infiammatoria coinvolge le ossa, rendendole più deboli e soggette a fratture, i tendini (si atrofizzano e diventano doloranti), i reni, il cuore, il timo e provoca uno stato generale di ASTENIA (affaticamento). Inoltre, aumenta l’accumulo di ADIPOCITI e GRASSO VISCERO-MUSCOLARE, diminuisce notevolmente i FATTORI DI CRESCITA NEUROTROFICI (responsabili del riadattamento sinaptico e della PLASTICITÀ NEURALE), altera le CAPACITÀ PERCETTIVE dal momento che alte concentrazioni di cortisolo e catecolamine modificano le aree cerebrali dell’IPOTALAMO, INSULA e AMIGDALA, fondamentali per la percezione degli stimoli corporei e la regolazione di quelli emotigeni (una delle conseguenze di ciò può essere l’ ANSIA GENERALIZZATA).

Tutto questo rende i NEURONI PIÙ “IRRITABILI” E “SENSIBILI” anche a bassi livelli di stimolazione, abbassandone la SOGLIA DI REAZIONE. Ciò può portare ad IPERALGESIA, ovvero all’abbassamento della soglia percettiva del dolore.

 

Quanti “effetti collaterali”! Non sarebbe meglio evitare gli stressors?

Benché, indubbiamente, le conseguenze negative dello stress siano numerose e a volte anche piuttosto deleterie, EVITARE LO STRESS NON È POSSIBILE NÉ AUSPICABILE, POICHÈ EQUIVARREBBE AD EVITARE LA NOSTRA STESSA VITA, NEGARE LA NOSTRA ESISTENZA DI ESSERI IN CONTINUO MUTAMENTO, LA CUI SOPRAVVIVENZA RICHIEDE L’ADATTAMENTO COSTANTE A NUOVE RICHIESTE BIO-PSICO-SOCIO-AMBIENTALI.

 

Qual è il fattore “perno” su cui ruota la relazione tra stressor e organismo?

È il modo in cui valutiamo gli stimoli potenzialmente destabilizzanti, direttamente collegato al senso di autoefficacia e autostima.

Quanto ci sentiamo in grado di fronteggiare quella richiesta? Abbiamo le risorse necessarie? Come ci valutiamo in relazione ad esse? A quali risultati miriamo? Quali sono le nostre aspettative?

Tutto questo lega alla dimensione oggettiva dello stress una dimensione soggettiva, dalla quale l’uomo non può prescindere. Essa comprende la facoltà umana di giudicare e decidere, allude cioè a una scelta, un discernimento, e allo stesso tempo a un rischio.

Dopotutto, solo scoprendo e utilizzando nuove categorie di interpretazione delle situazioni e ampliando la propria prospettiva, ci si potrà sentire via via meno destabilizzati e rendersi conto che, in fin dei conti, ciò che si sta vivendo non è altro che “un cambiamento di stato” che, per essere affrontato, esige una nuova presa di coscienza. Esige, cioè, che sia messa da parte la paura del futuro, una specie di “salto nell’abisso” ma a occhi ben aperti per vedere nuove opportunità e finalmente risalire, prendendo coscienza di essere uomini nuovi, e potenzialmente sempre pronti a rinnovarsi.

NON DOBBIAMO MAI DIMENTICARE CHE LA “TENSIONE” CHE CI SOSPENDE SUGLI ABISSI È LA STESSA CHE CI CONDUCE VERSO NUOVI EQUILIBRI.

A NOI STA CONOSCERLA, INCANALARLA E DIFENDERLA.

 

 

Carlotta Cadoni

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CREATIVITÀ: spontaneità e “creazione”

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CREATIVITÀ: spontaneità e “creazione”

In ogni attività creativa, colui che crea si fonde con la propria materia, che rappresenta il mondo che lo circonda. Sia che il contadino coltivi il grano o il pittore dipinga un quadro, in ogni tipo di lavoro creativo, l’artefice e il suo oggetto diventano un’unica cosa: l’uomo si unisce col mondo nel processo di creazione.”

(E. Fromm)

 

Se l’individuo realizza il suo io mediante l’attività spontanea, e in questo modo si mette in rapporto con il mondo, cessa di essere un atomo isolato; sia lui che il mondo diventano parti di un tutto organico; egli occupa il suo giusto posto, e così i dubbi su se stesso e sul significato della vita; quando egli riesce a vivere non in modo coatto, né da automa, ma spontaneamente, essi scompaiono. Ha coscienza di sé come un individuo attivo e creativo e riconosce che c’è un solo significato della vita: l’atto stesso di vivere.”

(E. Fromm)

 

L’educazione deve promuovere l’indipendenza interiore e l’individualità del bambino, il suo sviluppo e la sua integrità.  Nella nostra civiltà, tuttavia, l’educazione, troppo spesso, produce l’eliminazione della spontaneità.”

(E. Fromm)

 

La spontaneità è il momento in cui ci sentiamo liberi di esprimerci in tutto il nostro essere e in cui ci avviciniamo al nostro Sé. Purtroppo il sistema educativo ufficiale tende ad eliminare la spontaneità, ed è così che gli esseri umani si ritrovano come automi o ripetitori stereotipati di pensieri e modi di vivere semplicemente “copiati”, “imposti” e non propri, derivati da un indottrinamento acritico e monocromatico. Ognuno dovrebbe essere libero di esprimere e sviluppare la sua unicità, con tutti i colori e tutte le possibili sfumature. Ciò è tanto più possibile quanto più ci si connette a se stessi e a ciò che ci circonda, prendendo sempre più coscienza di essere PARTE INTEGRANTE del grande disegno della VITA.

Chi tenterà di “uscire” fuori da questo grande Guscio del Controllo, deve mettere in conto che il percorso non sarà facile poiché verrà osteggiato, deriso, ignorato, visto come pericoloso, allontanato, forzatamente etichettato, soprattutto se non si può “corrompere” o “catalogare”.

La verità è che la spontaneità fa paura perché è difficile da “imbrigliare” e dirigere, si lega alla fluidità e alla mutevolezza della vita, è come una sorta di “mina vagante” capace di portare disequilibrio e destabilizzazione. Il bello di ciò sta proprio nel fatto che senza di essa non ci sarebbe il “nuovo”, non sarebbe per noi possibile ristabilire e creare nuovi equilibri. Spesso siamo invece portati a cullarci e crogiolarci tra le sbarre sicure del conosciuto, del familiare e così escludiamo tutta la realtà che c’è “fuori”. Un po’ come nel famoso mito della caverna di Platone:

La vera tragedia della vita è quando un uomo ha paura della luce”.

Quando si tendono a fare troppi calcoli e programmi per la propria esistenza o ci si impone degli standard da raggiungere o dei parametri in cui rientrare, si rischia di essere schiavi del proprio bisogno di matrice difensiva egoica di controllo, sicurezza, previsione, conferma. Questo, troppo spesso, ci spinge a compiere delle scelte affrettate, a staccarci dal nostro nucleo emotivo, ad essere lamentosi, ansiosi, angosciati, frustrati, depressi. Ciò avviene perché in realtà, nel caotico fluire della spontaneità della vita, si può controllare o dirigere molto poco, i programmi possono “saltare” e i risultati possono essere diversi da quelli aspettati. La difficoltà più grande per noi adulti-bambini a confronto col Grande e Immenso Maestro della Vita sta nel fatto che bisogna essere pronti a confrontarsi con la perdita, col distacco, con la “morte” per maturare e apprezzarne la natura, l’imprevedibilità, la sfida, e per conoscere se stessi e l’altro. A volte può essere vista come ingiusta, cinica, poiché ignora le “teorie”, le “leggi” e i “codici” degli uomini. Percorso molto molto duro, ma non dobbiamo scordare che noi saremo sempre nella Vita e la Vita sarà sempre in noi. Anche quando ci sembra tutto perduto, non vediamo via d’uscita o quando ci sentiamo profondamente soli e incompresi.

Non sempre ciò che ci fa sentire protetti o nel giusto, come le sbarre sicure dell’accettato, del ripetuto e del conformismo, è giusto e buono per noi. Solitamente siamo portati a pensare che la spontaneità derivi dall’istinto e non abbia alcun “filtro”, ciò è vero solo in parte. La spontaneità dell’essere umano complesso va a braccetto con la creatività ed è strettamente collegata con l’intelligenza, che non a caso deriva dal termine “intelligere” che significa “intendere”, “capire”; più precisamente sarebbe una contrazione del verbo legĕre, “leggere”, con l’avverbio intŭs, “dentro”, ovvero “leggere dentro”, andare in profondità nelle cose non fermandosi alla superficie e trovare e scovare collegamenti tra esse.

Molti psicologi, come Stern, la definiscono come:

La capacità generale di adattare il proprio pensiero e condotta di fronte a condizioni e situazioni nuove.”

Per altri studiosi come Legg e Hutter sarebbe:

La misura della capacità di un agente di raggiungere obiettivi in una varietà ampia di ambienti.”

In particolare, queste definizioni non hanno a che fare solo con la sfera delle caratteristiche personali (tratti) e delle capacità dell’individuo ma anche all’ambiente circostante, che non è un semplice “sfondo” passivo, ma anch’esso influenza attivamente l’intelligenza. In realtà, come possiamo vedere, è un concetto molto lontano dal “freddo” ragionamento logico o dell’esclusivo pensiero convergente, il quale prevede  una sola soluzione per un determinato problema o situazione, l’unica considerata come “valida” e “giusta”.

La presente definizione di intelligenza permette diversi approcci alla comprensione della creatività e al fatto che la spontaneità sia il seme di ogni attività creativa.

Solitamente siamo abituati ad applicare schemi di conoscenze già consolidate per adattarci alle varie situazioni, compresi “codici di interpretazione” condivisi della realtà. In questo modo siamo fermi alla fissità funzionale, ovvero consideriamo solo degli usi più familiari e ovvi che gli oggetti consentono, compresi metodi risolutivi per i problemi o modelli d’azione già “provati” e testati in precedenza che si sono rivelati efficaci e/o utili.

La fissità funzionale può essere considerata in contrasto con l’originalità e la creatività ed è, in realtà, uno dei maggiori ostacoli alla risoluzione dei problemi anche se potrebbe sembrare un’agevolazione poiché è quasi automatica. Infatti si attiva ogni volta che l’individuo risponde ad una situazione nuova in modo conosciuto e familiare anziché produrre delle risposte nuove che conducono alla soluzione del problema  o al raggiungimento di un fine.

Per lo studioso Maier i soggetti creativi sarebbero dotati di maggiore capacità di selezione e integrazione di elementi facenti parti del “repertorio comportamentale” (entro cui vi sono sia comportamenti specifici innati che appresi) combinandoli in modo diverso e mutevole a seconda del contesto. Gli individui selezionano i loro comportamenti ed organizzano le loro esperienze, cosicché i comportamenti messi in atto in una data situazione possono essere il frutto di elementi innati e acquisiti, connessi in modo nuovo tra loro (potremmo dire “fantasioso”). Questo garantisce all’organismo un’importante flessibilità.

La soluzione creativa dipende anche dal modo in cui si formulano i problemi. In particolare, Getzels (1975) distinse tra capacità di risolvere un problema e capacità di scoprire un problema. La capacità di scoprire un problema, vederlo in modo nuovo, esaminarlo da prospettive differenti, conferisce una dimensione in più alla realtà stessa con cui ci si sta confrontando e con cui si sta entrando in relazione, rispetto alla semplice risoluzione. Perciò si “scoprono” diversi percorsi plausibili da poter percorrere, anche se non convenzionali o consuetudinari, non è focalizzato esclusivamente a produrre la soluzione “giusta”, ma si sposta su quella “possibile”, perciò si lega anche ad una buona dose di previsione, intuito e immaginazione.

Per quanto riguarda l’ambito psicoanalitico possiamo cominciare col dire cosa fosse la creatività per Sigmund Freud. Essa, in estrema sintesi, si baserebbe su due meccanismi di difesa: spostamento e sublimazione. La sua visione della creatività è essenzialmente patomorfica, ovvero un individuo creativo sposterebbe la libido sessuale frustrata su un altro piano di realizzazione cambiando il suo corso, incanalandola verso altre attività (sublimandola), in questo modo sarebbe favorita l’adesione al principio di realtà e l’adattamento al contesto sociale di appartenenza.

In soldoni: per Freud la creatività è frutto della sublimazione di energie libidiche scaturite da una frustrazione, e del loro ri-orientamento in una direzione produttiva, socialmente accettata e gratificante.

Analizzando la prospettiva di Carl Gustav Jung in merito, troviamo invece una posizione molto più ampia, sfaccettata e complessa, e certamente meno deterministica e  “lineare” rispetto a quella freudiana, e difficilmente può essere ridotta ad un paio di righe. Ad ogni modo tenterò comunque di mettere in risalto le componenti del suo pensiero più importanti in vista di una comprensione di insieme il più chiara possibile, collegandole più specificamente al tema della creatività.

Sarebbe il rapporto dialettico tra archetipi interiorizzati e opposti attraverso l’enantiodromia compensativa(Animus/Anima, Persona/Ombra) a generare le dinamiche psichiche di ciascun individuo e a sviluppare e trasformare l’energia libidica, come “fiamma vitale” creativa. In particolare, un ruolo fondamentale nell’ambito della creatività si può ritrovare nella ricchezza dei prodotti dell’inconscio, in particolare mi vorrei soffermare sui lati sopiti, nascosti e non sviluppati dell’Ombra. Jung la definisce così:

Dentro di noi abbiamo un’Ombra: un tipo molto cattivo, molto povero, che dobbiamo accettare.”

Essa è la parte oscura della nostra personalità, ma non deve essere vista necessariamente con accezione negativa, poiché può essere portatrice di energie creative, che l’individuo solitamente tende ad ignorare, negare, non vedere. L’enantiodromia (che letteralmente significa “corsa nell’opposto”) si lega in modo particolare all’Ombra, è un concetto filosofico eracliteo ripreso e utilizzato da Jung che indica un principio universale della psiche umana, individuale e collettiva. Essa presuppone un movimento di compensazione di “tendenze opposte”. Compensazione e fluidità sono i termini chiave.

Qualora un’istanza psichica rimanesse ignorata o repressa, non smetterebbe di esistere e non sarebbe eliminata, ma al contrario precipiterebbe nell’inconscio per poi, ad un’occasione “propizia” ripresentarsi e riscattare più forte di prima, scatenando una vera e propria “rivoluzione”. Ma se questo nuovo equilibrio dovesse sbilanciarsi troppo nella direzione opposta, la nuova istanza accumulerebbe energia per scatenare una controrivoluzione. E’ un sistema vitale di bilanciamento e contro-bilanciamento che segue il principio di entropia e teoria del caos in fisica.

Nell’ombra quindi si accumula l’energia misteriosa che metterà in moto il movimento per la creazione e la stabilizzazione di una nuova omeostasi dinamica. Essa, attraverso la sua integrazione, dà sostanza e “realtà” all’esistenza umana. Qualsiasi corpo che sia “solido” e che è attraversato dalla luce, ha sempre un’ombra che lo sostiene.

Il legame tra realtà archetipica universale ed esperienze soggettive e contingenti, crea una sintesi fortissima di potenza creatrice. Ciò rimanda al processo di trasformazione alchemica, come metafora della tendenza dell’essere umano verso l’individuazione, il centro del Sè. La sintesi ha luogo grazie all’illuminazione da parte del faro della coscienza di questi elementi sconosciuti e oscuri che precipitano e galleggiano nel mare buio dell’inconscio. Il processo di armonizzazione di opposti, favorirebbe la loro integrazione, e così permetterebbe di trascendere l’ambiguità e la bipolarità intrinseca alla “vita” . Per Jung infatti è proprio l’istinto creativo ad essere specifico per l’uomo, è ciò che lo distingue dalle altre specie viventi, è la forza che lo spinge verso l’individuazione e la capacità di simbolizzazione. Ciò significa che c’è un profondissimo collegamento tra creatività e trasformazione psichica.

Il soggetto che è teso verso l’individuazione, si rapporta in modo creativo col mondo avvicinandosi al Sé: che sarebbe il centro della Personalità, l’archetipo della Totalità, in esso si riuniscono inizio-fine, vita-morte, è il luogo psichico nel quale gli opposti sono riuniti e trascesi. Così l’individuo tende a svilupparsi come un seme in potenza, vivendo secondo un télos, mediante il quale si avvicina sempre più alla realizzazione del suo pieno potenziale.

A proposito di sviluppo del proprio potenziale e di vocazione, non posso non citare il lavoro di Hillman in merito.

Ne “Il codice dell’anima”, Hillman mette in luce il fatto che le immagini archetipiche, creano i miti. Essi sono le “forme” simboliche attraverso cui l’anima può esprimere la propria energia e riconoscere la propria vocazione, a prescindere da pressioni sociali e da situazioni contingenti. Solo rispettando e aprendosi al mito che ciascuno porta in sé, l’essere umano che contiene in sé il seme della grande quercia, è in grado di costruire un rapporto equilibrato con la realtà, crescere nel mondo, portare a pieno compimento il proprio destino.

Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, ci dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino.” (J. Hillman, Il codice dell’anima, pag. 23)

Questo libro ha per argomento la vocazione, il destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme, sostanziano la “teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta.” (J. Hillman, Il codice dell’anima, pag. 21)

 

In ognuno di noi esiste un qualcosa di “vivo” che ci porta  ad essere in un certo modo, ad intraprendere determinati percorsi, a compiere delle scelte. Questo, esattamente questo è il daimon! Esso è  il «demone» che ciascuno di noi riceve come “compagno di viaggio” prima della nascita su questa Terra, secondo il mito di Er raccontato da Platone. Questa “spinta” di cui ragione e logica non comprendono “la fonte”, è facilmente comprensibile con l’intuizione, e le parole come «vocazione», «chiamata», «carattere» sarebbero la “maschera” utile a definirla.

James Hillman afferma che esso possa essere la chiave per leggere il «codice dell’anima», quella sorta di linguaggio cifrato che ci spinge ad agire ma che non sempre capiamo, né possiamo prevedere, che ci guida molto più di quanto noi siamo in grado di dirigerlo. Il daimon è quella “voce interiore” che ci conduce verso la piena realizzazione della nostra personalità.

Tutti abbiamo un destino, poiché tutti facciamo parte di un Grande Disegno. In esso la creatività sarebbe un’immensa energia la cui origine risiederebbe al di fuori della psiche umana inserita in uno specifico spazio-tempo. L’energia creativa è quella del creatore e proprio per questo spinge a realizzare e costruire se stessi (per meglio comprendere e comprendersi) attraverso un legame specifico con l’altro e il mondo. L’essere umano creativo non può che essere devoto verso la  realizzazione, dal momento in cui essa è intimamente collegata all’incessante fluire della natura, della Vita, è in realtà molto più potente del suo possessore, che rischia di essere trascinato e posseduto dalla sua potente corrente molto più di quanto sia effettivamente capace di dirigerla. È una possessione che prende varie forme che seguono modelli archetipici, ai quali l’esperienza creativa può aderire in momenti diversi, e che possono combinarsi o contaminarsi tra loro, ad esempio: la saggezza del vecchio (senex) , la giocosità irresponsabile del giovane (puer), la sregolatezza del folle ecc…

È dunque l’anima quella che trova il senso delle cose, che interiorizza eventi come esperienze, che si comunica nell’amore, che ha un’ansia religiosa e un rapporto speciale con la morte, e che realizza la possibilità immaginativa insita nella nostra natura, il fare esperienza attraverso la speculazione riflessiva, il sogno, l’immagine e la fantasia”. (Re-visione della psicologia, 1983).

 

Un’altra figura di spicco che merita di essere menzionata a proposito del tema in questione è certamente Winnicott, e il concetto da lui elaborato di dimensione transizionale in relazione alla creatività collegata all’attività ludica. Ciò che da egli viene chiamata esperienza transizionale è fondamentale per la comprensione dello sviluppo della capacità simbolica e attraverso essa, sin da piccolissimi, cerchiamo di creare un “ponte” tra il mondo esterno e interno. Di solito, per far ciò, i bambini molto piccoli utilizzano degli oggetti (che prendono il nome di “Oggetti transizionali”) verso i quali mostrano un particolare attaccamento; questi possono essere: coperte, orsacchiotti, cuscini ecc… che, oltre ad essere personificati così trasformandosi nei personaggi insostituibili dei loro giochi, divengono anche fonte di sicurezza, protezione e regolazione emotiva.

L’oggetto transizionale costituisce così un’area intermedia di esperienza che favorisce la relazione tra il mondo degli oggetti soggettivi (creati cioè dal bambino) e il mondo della realtà.

Il bisogno intrinseco di giocare non nasce per il bisogno di un distacco da una realtà frustrante (come sostenuto da Freud), quanto piuttosto da una necessità forte e innata di conoscenza ed esplorazione della realtà stessa. Per compiere questo percorso non basta la semplice “contrapposizione” tra realtà psichica interna e realtà esterna con-divisa, ma si deve tenere in considerazione una terza area che collega queste due realtà, una dimensione plastica e “virtuale” che, come già accennato prima, viene chiamata spazio transizionale, terza area o spazio potenziale.

I fenomeni transizionali sono dei mediatori nel processo di costruzione della realtà e sono altresì dei garanti della funzione fondamentale della fantasia. Essi sono al tempo stesso: processo, attività, relazione e costituiscono le basi del gioco e della creatività. Hanno una doppia articolazione:

1)separano: indicano l’inizio di me come essere autonomo e l’oggetto, da prosecuzione del sé, diventa oggetto non-me;

2)uniscono: esprimono la continuazione del bisogno di relazione e unione sperimentata attraverso la fantasia, l’inizio di un tipo affettuoso di rapporto oggettuale.

Si può dire che questi fenomeni costituiscano la radice del simbolismo e si prolungano, oltre che nel gioco e nella creatività, anche nel gusto e nella contemplazione e creazione artistica, e nel sentimento religioso.

Il gioco connesso alla capacità creativa quindi non è solo: esercizio, sfogo,  divertimento, evasione e/o fuga dalla realtà, ma ha una natura ben più profonda. Esso, è crescita, scoperta, relazione, esplorazione, creazione, libertà, messa alla prova dei propri limiti. Rappresenta il processo grazie al quale si fonda la capacità di relazionarsi, accettare e confrontarsi con differenze e similitudini, dare un senso e un significato a ciò che esperiamo e sentiamo come esseri unici e irripetibili.

 

Secondo lo psicoanalista S. Arieti esisterebbero due forme di creatività:

1)    creatività ordinaria: renderebbe l’individuo capace di apportare miglioramenti alla propria vita, rendendola il più soddisfacente possibile;

2)    creatività straordinaria: l’individuo avrebbe la capacità di essere un costruttore e innovatore di sistemi e paradigmi, tesi al miglioramento dell’esistenza di tutti, muovendosi anche verso la dimensione sociale più ampia e non solo personale.

In “Creatività, la sintesi magica” Arieti spiega che la persona dotata di creatività straordinaria, avrebbe una possibilità più estesa di accesso alle immagini rispetto alla media, compreso il ragionamento metaforico, e quello legato alla verbalizzazione. Queste “forme” per la comprensione e conoscenza del mondo, sono legate al processo primario, nel quale interviene l’inconscio.

Ci sarebbero delle somiglianze tra tre tipologie di individui: il sognatore, lo schizofrenico e il creativo. Essi condividerebbero un accesso facilitato e più rapido alla sfera primaria. Le differenze tra essi sono le seguenti:

1)    schizofrenico: resta impigliato nel labirinto caotico della sfera primaria;

2)    sognatore: si fa oltremodo influenzare da auto-suggestioni tralasciando la razionalità e la logica;

3)     creativo: è in grado di filtrare, adattare, elaborare, collegare le immagini e i prodotti caotici legati al processo primario col pensiero logico e integrato che invece appartiene al processo secondario.

Infine, si trova il processo terziario che riguarda la sintesi creativa. Esso, da una parte presuppone una forte passività ricettiva-attiva che sarebbe la facoltà che consente ai prodotti primari di “spuntare” e “venir fuori” all’improvviso, inaspettatamente, di getto, come quando diciamo che ci si “è accesa la lampadina”, ciò può avvenire, ad esempio, mentre meditiamo, contempliamo qualcosa, siamo “sovrappensiero”, fantastichiamo, sogniamo;  dall’altra richiede anche un’incisiva attività intenzionale e consapevole per gestire, incanalare quei materiali in modo adeguato, così da dargli senso e significato.

Arieti la definisce come:

“Una magia di cui la persona creativa rimane depositaria, un segreto che non può rivelare né a se stesso né agli altri.”

 

Ora, mettendo da parte la prospettiva psicoanalitica, possiamo dire che generalmente la maggioranza delle ricerche in ambito psicologico riguardo la creatività si siano maggiormente focalizzate sull’individuo, ovvero i tratti, la personalità, il temperamento, gli stili cognitivi, ecc… Un modello che si discosta da ciò è quello sistemico di Csikszentmihalyi, il quale vede la creatività anche come  fenomeno sociale e culturale e non solo psicologico-individuale. Ovvero, la creatività sarebbe un’indispensabile proprietà di un sistema ampio e complesso, un sistema che è molto più della somma delle parti che lo compongono. Due sono i presupposti principali affinchè un individuo sviluppi il suo essere cretivo:

1)    Possibilità e tempistica di accesso al dominio: questo dipende in larga parte dal vivere sin da piccoli in un ambiente ricettivo, stimolante, arricchente, che possa offrire gli strumenti d’accesso ad un certo dominio, come la famiglia, la scuola o l’incontro con un mentore. Questo contesto relazionale aiuta a stimolare l’interesse precoce per un certo dominio.

 

2)     L’accesso all’area di specialità: dipende sia dal grado di expertise e dalla bravura in un dominio, sia dalla capacità di farla venir fuori attraverso la comunicazione e le relazioni. La mancanza del contatto con l’area di specialità può rendere veramente difficile la realizzazione sociale pratica di un percorso creativo, ad esempio in ambito lavorativo.

 

Csikszentmihalyi riguardo a quelle che dovrebbero essere le caratteristiche intrinseche della personalità creativa, sostiene che nessuna di esse possa fungere da garante per la creatività. Nessun tratto specifico predice linearmente la capacità di un individuo di essere creativo. Il solo ed unico ingrediente che non può mancare nel creativo, e che risulta indispensabile, è l’equilibrazione della tensione dialettica tra OPPOSTI. Ovvero: egli ha la facoltà di sperimentare le opposizioni contemporaneamente, senza che ciò sia frustrante o disgregante. Anzi, muoversi da un estremo all’altro con fluidità permette di trovare nuove “sfumature” e nuove prospettive differenti per allargare gli orizzonti.

 

L’Autore delinea dieci dimensioni della complessità, che hanno una natura bipolare e che risultano tra loro in continuo stato di equilibrio dinamico:

1) energia fisica–riposo;

2) intelligenza-innocenza;

3) gioco-disciplina;

4) immaginazione-senso della realtà;

5) estroversione-introversione;

6) umiltà-orgoglio;

7) mascolinità-femminilità;

8) conservatorismo-ribellione;

9) passione-obbiettività;

10) sofferenza-entusiasmo.

 

Dunque, le persone creative non si distinguono dalle altre tanto per dei tratti specifici, quanto piuttosto per la loro capacità di usare e combinare in modo sempre differente un esteso repertorio di aspetti della personalità, che in apparenza possono sembrare in contraddizione tra loro.

Un lavoro di ricerca della Northwestern University sembra fornire delle evidenze psicofisiologiche per le quali la creatività dell’ essere umano sarebbe connessa ad una capacità minore e più debole di filtraggio delle informazioni “irrilevanti”. Come già accennato precedentemente, i creativi avrebbero un filtro sensoriale più debole rispetto ad altri, per questo motivo tenderebbero a far convergere nei propri processi attentivi più aspetti sensoriali relativi ad una data esperienza. Gli individui creativi sarebbero maggiormente “bombardati” dagli stimoli provenienti dall’ambiente circostante e da quelli “interni”, perciò svilupperebbero l’ “urgenza” di connetterli  e comporli nei modi più disparati possibili, per elaborarli meglio col minor dispendio di energie.

È stato evidenziato in ricerche successive la minor attivazione del marker neurale del “Sensory gating” che media l’attenzione nel filtraggio di informazioni, negli individui maggiormente creativi, identificata attraverso una risposta neuro-fisilogica di un’area dell’encefalo che si attiva  dopo 50 millisecondi dalla presentazione di uno stimolo (ERP P50). Dai dati emerge che l’effettiva produttività creativa in diversi ambiti si assocerebbe in modo statisticamente significativo a un minore segnale di sensory gating, corrispondente dunque a una difficoltà nell’ignorare stimoli non pertinenti.

La creatività è collegata ad una buona dose di solitudine e ad un confronto col senso di “vuoto”. Il creativo impara a giocare all’interno di questo “spazio possibile” e a dare forma a se stesso e al mondo. Esso è il regno della trasformazione, del possibile, dell’innocenza-spontaneità (contatto col nostro “bambino interiore”) così come dell’intelligenza, della MORTE così come della NASCITA. Permea nelle nostre vite per la natura contraddittoria e paradossale che ci caratterizza, siamo anima, corpo e spirito. In questo modo ognuno di noi ha la possibilità di sondare in modo diverso la realtà, creare “ponti” tra il conosciuto e il non conosciuto, imparare ad auto-osservarsi in modo critico e mettersi alla prova.

Da uno studio pubblicato su Mindfulness e condotto dall’ Università di Leiden è emerso che pratiche come la meditazione, possono favorire il pensiero creativo. In particolare fare pratica con gli esercizi di meditazione sembra influenzare a lungo termine la cognizione umana, tra cui la modalità attraverso cui vengono formulati i pensieri e concepite le idee.

Questo ci suggerisce che la creatività, come qualità creatrice intrinsecamente umana, è una dimensione di “contatto” che cresce e si sviluppa nel “Vuoto”, importante per abbracciare, conoscere, sondare e comprendere noi stessi e tutto il creato visibile e non.

 

Carlotta Cadoni

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