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CRISI ECONOMICA E NEUROSCIENZE: COME LA POVERTÀ CAMBIA IL CERVELLO

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CRISI ECONOMICA E NEUROSCIENZE: COME LA POVERTÀ CAMBIA IL CERVELLO

Quali sono gli effetti sul nostro cervello del vivere in particolari condizioni di povertà socio-economica?

Ci dà risposta una recente ricerca condotta dall’università di Harvard

 

Sembra proprio che lo stress prolungato scaturito da problemi economici interferisca col nostro “circuito decisionale”.

Una recente ricerca americana, commissionata da Economic Mobility Pathways (EMPath), una no profit di Boston che dal 2006 lavora nella promozione di strumenti sociali contro la povertà, mette in luce un collegamento diretto tra meccanismi neuronali che coinvolgono sistema limbico e corteccia prefrontale e alcune contingenze pratiche della vita, come le condizioni socio-economiche in cui ci si trova.

 

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Di cosa sono responsabili il sistema limbico e la corteccia prefrontale?

 

A grandi linee, si può dire che la corteccia prefrontale (parte più “recente” del cervello) medi e sia responsabile delle capacità di problem-solving, goal-setting, e task execution; presiede quindi alla pianificazione dei comportamenti, alla capacità di prendere decisioni ed eseguirle e, secondo molti studiosi, anche all’espressione della personalità.

Essa lavora in concerto col sistema limbico (parte più “antica” del cervello), che si trova nella parte centrale dell’encefalo, precisamente nel tronco encefalico. Il sistema limbico si occupa del processamento dei segnali emotivi e dell’elaborazione delle risposte emotive, in parte per via del suo collegamento con la memoria a lungo termine.

Un ampio corpus di ricerche, dopo aver analizzato il cervello tanto di adulti quanto di bambini che vivono in condizioni di povertà, ha evidenziato che:

 

QUANDO UNA PERSONA VIVE A LUNGO IN CONDIZIONI DI POVERTÀ, DAL SISTEMA LIMBICO PARTONO COSTANTEMENTE MESSAGGI DI PAURA E STRESS CHE POI VENGONO INVIATI ALLA CORTECCIA PREFRONTALE. QUEST’ULTIMA INFLUENZEREBBE LA CAPACITÀ DI UN INDIVIDUO DI RISOLVERE PROBLEMI, RAGGIUNGERE OBIETTIVI, E FRONTEGGIARE LE SITUAZIONI DI VITA QUOTIDIANA E VARIE RICHIESTE AMBIENTALI NEI MODI PIÙ EFFICACI POSSIBILI.

 

E’ vero che questo può succedere a chiunque ad un certo punto della propria vita, indipendentemente dalla classe sociale. E’ vero però anche che le persone in condizione di povertà, rischiano di essere “abituate” a dover fronteggiare uno stress continuo e duraturo nel tempo. Questo può generare condizioni di strain (stress negativo) che più facilmente possono portare a modi di agire e re-agire alle richieste ambientali disadattivi e disfunzionali. Lo stress, inoltre, sarebbe spesso acutizzato dal dover combattere contro i pregiudizi della società nei confronti di chi è più povero.

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La scienza è chiara su questo: l’energia cerebrale utilizzata per far fronte alle paure e agli stressors di tutti i giorni,riferiti al soddisfacimento dei bisogni primari (sbarcare il lunario, vestirsi, potersi permettere un’istruzione ecc…), viene completamente “assorbita” da queste impellenze e diventa inefficiente e non utilizzabile per cambiamenti di prospettiva, di valutazione delle situazioni e di se stessi in relazione ad esse. Ne risentono inoltre l’immagine di Sè, l’autostima e l’autoefficacia, oltre che le abilità di problem solving e di insight.

 

Elisabeth Babcock (presidente dell’ EMPath) sostiene che, in questo modo, le persone in povertà tenderebbero a divenire vittime, col tempo, di un vero e proprio “CIRCOLO VIZIOSO” che si auto-rinforzerebbe (come un serpente che si morde la coda) basandosi sull’ idea per la quale le persone povere non possono cambiare e migliorare le proprie condizioni di vita.

Lo studio più recente in merito, afferma che questo meccanismo passa dall’essere un evento occasionale che inibisce temporaneamente alcune facoltà intellettive al diventare una routine che trasforma il cervello dei soggetti interessati.

 

 

È possibile interrompere questa spirale negativa che si auto-alimenta?

 

La risposta è: ! E’ stata spiegata da Atlantic Al Race, condirettore del Centro di sviluppo del bambino dell’Università di Harvard:

«È vero che gli stress e i rischi costanti cui la povertà espone cambiano il cervello delle persone. Ma è vero anche che le sezioni cerebrali interessate dal fenomeno preso in esame si caratterizzano per essere particolarmente “plastiche”, cioè possono essere rafforzate e ri-sviluppate in modo positivo anche nell’età adulta».

 

Facendo leva sulla plasticità neurale, la funzione di “rigenerazione” e “riorganizzazione” dei circuiti neurali del cervello, presente anche in età adulta, gli studiosi hanno rilevato che questi modi appresi e disadattivi di immagine di sé, problem solving e task execution che col tempo hanno trasformato il cervello, possano essere ri-costruiti e “corretti” tramite tecniche di psicoterapia rivolte a singoli adulti, minori e ad interi nuclei familiari.

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Ha detto Elisabeth Babcock:

«Il segreto per rompere il meccanismo è aiutare queste persone a portare a termine anche un solo obiettivo che non credevano di poter raggiungere».

 

Gli stessi autori della ricerca infatti spiegano che questa spirale può essere rappresentata metaforicamente come:

«Un ponte in cui basta far venire giù un pilastro per fare cadere l’intera struttura».

Si potrebbe concludere che le capacità che abbiamo di ri-generazione e cambiamento sono infinite, e queste sono date dalla complessità che ci caratterizza.

La stessa complessità che ci porta a cadere in spirali negative, è la stessa che ci porta a rialzarci e guardare con “nuovi occhi” noi stessi e il mondo.

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Carlotta Cadoni

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LO STRESS

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LO STRESS

PICCOLA LENTE DI INGRANDIMENTO SULLA PROSPETTIVA PSICONEUROENDOCRINOIMMUNOLOGICA

 

Nel corso degli anni, gli studi e le ricerche sullo stress hanno fatto grossi passi avanti.

Il “PADRE” indiscusso della concettualizzazione scientifica dello stress è senza dubbi Hans Selye. Egli ne diede una prima definizione psicologica, andando oltre la semplice riconduzione di esso allo “sforzo” e alla “fatica”.

All’interno della sua teoria, lo stress sarebbe una risposta aspecifica di un organismo a vari stimoli esogeni ed endogeni (psico-sociali e bio-fisici).

Lo stress, in questo senso, perde la sua connotazione negativa e diventa un modo di re-azione “normale” di un essere collocato psico-fisiologicamente nel mondo empirico, scientificamente descrivibile e studiabile.

Selye, a questo proposito, parlò di SINDROME GENERALE DI ADATTAMENTO, costituita da tre fasi:

ALLARME, RESISTENZA, ESAURIMENTO.

La teoria è basata sull’assunto che, naturalmente, un organismo è portato alla creazione e al mantenimento di una condizione omeostatica.

 

Cos’è l’omeostasi?

È una condizione di equilibrio psico-fisico dinamico che permette il corretto funzionamento dell’organismo e ne consente l’adattamento. Quanto più questo equilibrio è fluido e capace di costruirsi e ri-costruirsi, tanto più un essere è capace di adattarsi. Questo vale sia a livello anatomo-fisiologico che a livello psicologico e sociale.

Siamo quotidianamente “bombardati” da vari stimoli a noi interni ed esterni, e il nostro equilibrio è costantemente messo alla prova.

Per essere degli UMANI ADATTATI E ADATTABILI dobbiamo diventare dei “BRAVI EQUILIBRISTI”, sempre pronti a spostare il BARICENTRO per NON CADERE! E col tempo e l’esperienza vissuta, sviluppiamo delle vere e proprie tecniche, delle “strategie” per far fronte ai vari ostacoli e alle vicissitudini dell’esistenza, ognuna delle quali è un potenziale e/o effettivo “destabilizzatore”.

Questi “agenti destabilizzanti” vengono chiamati STRESSORS in gergo tecnico.

Gli stressors sono degli stimoli che in sé non sono né positivi né negativi.

È l’interazione con un organismo che li definisce in un senso o in un altro.

Essendo agenti stressogeni, alzano in noi il livello di allerta e il COME li vediamo e li percepiamo, in relazione alla VALUTAZIONE COGNITIVA che facciamo in merito alle RISORSE interne ed esterne di cui disponiamo per fronteggiarli, influenza la nostra risposta a livello psicologico, fisico e comportamentale.

Nella FASE DI ALLARME si accende il “CAMPANELLO” interno dell’ ALLERTA; essa comporta dei cambiamenti a livello biochimico ed endocrino, stimolando la produzione di NORADRENALINA, ADRENALINA e GLUCOCORTICOIDI, tra cui il CORTISOLO, l’ormone dello stress per antonomasia. Questa fase prepara l’organismo a re-agire ad uno stimolo, aumentando la frequenza respiratoria e cardiaca, tutti gli organi e i tessuti, compreso quello muscolare, vengono OSSIGENATI al massimo per essere pronti ad un’eventuale risposta di AZIONE o FUGA.

Nella FASE DI RESISTENZA l’organismo si prepara a DIFENDERSI da un’eventuale “minaccia” e si mettono in atto una serie di strategie elaborate a livello cognitivo che permettono di fronteggiare le varie situazioni di vita. Esse vengono chiamate STRATEGIE DI COPING, e possono essere molteplici (es: si può scegliere di spostare l’attenzione dallo stimolo stressogeno ad un altro più “controllabile”; oppure lo si può affrontare per analogia con un’altra situazione “simile” che si è verificata in passato e per la quale quella strategia aveva portato risultati positivi; si possono utilizzare tecniche di rilassamento, ecc..). Se la resistenza ha successo si verifica l’ADATTAMENTO dell’organismo e la creazione di un NUOVO EQUILIBRIO; se invece questa FALLISCE, l’organismo può cadere nello stato di ESAURIMENTO (terza ed ultima fase del modello di Selye). In essa si verifica il CROLLO DELLE DIFESE e l’incapacità di re-agire allo stressor e ri-creare un’omeostasi funzionale e “sana”. Si verifica più frequentemente quando, in media, la situazione stressogena si porta avanti per più di sei mesi, quando gli stressors agiscono A LUNGO TERMINE.

L’attivazione a lungo termine dell’ASSE IPOTALAMO-IPOFISI-CORTICOSURRENE porta ad un aumento di ormoni corticosurrenali in circolo, che può avere conseguenze anche GRAVI col tempo.

 

In un mondo come il nostro, iperveloce, individualista, improntato sul SUCCESSO dell’UOMO CHE SI FA DA SÉ (self made man) cadere nell’esaurimento non è poi così raro e difficile!

 

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Quali rischi si corrono?

I rischi sono molteplici: disturbi cardiovascolari in primis (ipertensione, rischio di infarto), disturbi endocrini e ormonali, disordini metabolici, disturbi del sistema immunitario (linfoadenopatia reattiva cronica, esposizione all’ insorgenza di reazioni infiammatorie e malattie auto-immuni), disturbi del sonno, gastrici (gastrite, reflusso gastroesofageo, sindrome del colon irritabile), cognitivi (abbassamento della concentrazione, disturbi dell’attenzione, deficit di memoria) ecc..

Dagli studi più recenti sullo stress, pubblicati peraltro dalla rivista PNEI NEWS, si è infatti riscontrato un collegamento importante tra stress e SISTEMA MIOFASCIALE, che coinvolge OSSA, ARTICOLAZIONI, MUSCOLI, TESSUTO ADIPOSO, ORGANI INTERNI, MENINGI.

Qual è l’importanza del SMF?

Il SISTEMA MIOFASCIALE, in condizione di stress funzionale, permette di combinare la meccano-biologia dell’organismo, agendo soprattutto sull’ IMMUNITÀ UMORALE EXTRACELLULARE Th2, con azione prettamente ANTINFIAMMATORIA.

 

Cosa succede quando lo stress è CRONICO?

Succede che l’IMMUNITà Th2 assume la FUNZIONE INVERSA, ovvero INFIAMMATORIA!

Questa risposta infiammatoria coinvolge le ossa, rendendole più deboli e soggette a fratture, i tendini (si atrofizzano e diventano doloranti), i reni, il cuore, il timo e provoca uno stato generale di ASTENIA (affaticamento). Inoltre, aumenta l’accumulo di ADIPOCITI e GRASSO VISCERO-MUSCOLARE, diminuisce notevolmente i FATTORI DI CRESCITA NEUROTROFICI (responsabili del riadattamento sinaptico e della PLASTICITÀ NEURALE), altera le CAPACITÀ PERCETTIVE dal momento che alte concentrazioni di cortisolo e catecolamine modificano le aree cerebrali dell’IPOTALAMO, INSULA e AMIGDALA, fondamentali per la percezione degli stimoli corporei e la regolazione di quelli emotigeni (una delle conseguenze di ciò può essere l’ ANSIA GENERALIZZATA).

Tutto questo rende i NEURONI PIÙ “IRRITABILI” E “SENSIBILI” anche a bassi livelli di stimolazione, abbassandone la SOGLIA DI REAZIONE. Ciò può portare ad IPERALGESIA, ovvero all’abbassamento della soglia percettiva del dolore.

 

Quanti “effetti collaterali”! Non sarebbe meglio evitare gli stressors?

Benché, indubbiamente, le conseguenze negative dello stress siano numerose e a volte anche piuttosto deleterie, EVITARE LO STRESS NON È POSSIBILE NÉ AUSPICABILE, POICHÈ EQUIVARREBBE AD EVITARE LA NOSTRA STESSA VITA, NEGARE LA NOSTRA ESISTENZA DI ESSERI IN CONTINUO MUTAMENTO, LA CUI SOPRAVVIVENZA RICHIEDE L’ADATTAMENTO COSTANTE A NUOVE RICHIESTE BIO-PSICO-SOCIO-AMBIENTALI.

 

Qual è il fattore “perno” su cui ruota la relazione tra stressor e organismo?

È il modo in cui valutiamo gli stimoli potenzialmente destabilizzanti, direttamente collegato al senso di autoefficacia e autostima.

Quanto ci sentiamo in grado di fronteggiare quella richiesta? Abbiamo le risorse necessarie? Come ci valutiamo in relazione ad esse? A quali risultati miriamo? Quali sono le nostre aspettative?

Tutto questo lega alla dimensione oggettiva dello stress una dimensione soggettiva, dalla quale l’uomo non può prescindere. Essa comprende la facoltà umana di giudicare e decidere, allude cioè a una scelta, un discernimento, e allo stesso tempo a un rischio.

Dopotutto, solo scoprendo e utilizzando nuove categorie di interpretazione delle situazioni e ampliando la propria prospettiva, ci si potrà sentire via via meno destabilizzati e rendersi conto che, in fin dei conti, ciò che si sta vivendo non è altro che “un cambiamento di stato” che, per essere affrontato, esige una nuova presa di coscienza. Esige, cioè, che sia messa da parte la paura del futuro, una specie di “salto nell’abisso” ma a occhi ben aperti per vedere nuove opportunità e finalmente risalire, prendendo coscienza di essere uomini nuovi, e potenzialmente sempre pronti a rinnovarsi.

NON DOBBIAMO MAI DIMENTICARE CHE LA “TENSIONE” CHE CI SOSPENDE SUGLI ABISSI È LA STESSA CHE CI CONDUCE VERSO NUOVI EQUILIBRI.

A NOI STA CONOSCERLA, INCANALARLA E DIFENDERLA.

 

 

Carlotta Cadoni

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L’EMPATIA (parte 1)

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L’EMPATIA  (parte 1)

Da un po’ di tempo, nelle scuole della Danimarca, i bambini vanno a lezione di empatia. Imparano, cioè, sin da piccoli, a saper ascoltare e riconoscere le emozioni e a mettersi “nei panni” degli altri.

L’educazione completa del bambino non può prescindere da questi preziosi insegnamenti. Ciò, rappresenta un grande segno di civiltà e attenzione allo sviluppo armonico delle future generazioni.

Nell’ambiente scolastico, il propinare esclusivamente un sapere di tipo nozionistico ed enciclopedico, è riduttivo e insufficiente per la formazione di una persona che va “accompagnata” nella crescita. Tendenzialmente, si guarda poco all’allievo come individuo portatore di una preziosa unicità da incoraggiare e far emergere, e questo è sicuramente un male. “Maturare” non significa soltanto ricordare e ripetere concetti imparati a memoria, ma si intende elaborazione profonda dei contenuti e personalizzazione degli stessi. Ovvero: ogni essere umano è unico e perciò ogni argomento trattato ha una speciale risonanza interiore per quel particolare individuo.

Senza empatia non si può comunicare efficacemente e vivere in armonia e rispetto col prossimo.

L’empatia è il riuscire a mettersi nei panni dell’altro, e quindi capire la sua prospettiva COME SE ci si mettesse virtualmente al suo posto. In realtà è una capacità che abbiamo sin da piccolissimi e che sviluppiamo anche grazie al rapporto con i caregivers (chi si prende cura di noi). In ogni caso, può essere “allenata” (a prescindere dalla predisposizione personale più o meno marcata) e lo scopo, a livello educativo, dovrebbe essere quello di rendere i bambini (futuri adulti) esseri umani consapevoli del mondo emotivo, capaci di comunicare, di interagire con rispetto nei confronti di se stessi, degli altri e dell’ambiente.

 

 

 1. EMPATIA:

SISTEMA MIRROR E INTELLIGENZA EMOTIVA

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Iniziamo col dire che l’essere umano nasce con la capacità di entrare in connessione con gli altri e l’ambiente circostante, per comprendere ciò che lo circonda ed entrare in comunicazione con esso. Ciò è possibile attraverso il SISTEMA MIRROR (o dei neuroni specchio) a livello cerebrale e neurofisiologico, scoperto dal team di Rizzolatti. Il sistema neurale mirror è responsabile dell’empatia, dell’intersoggettività, e dell’attribuzione di intenzionalità ai comportamenti e alle azioni (per questo motivo gioca un ruolo importante anche nell’apprendimento, in modo speciale quello per imitazione).

Il sistema-specchio di cui siamo dotati, ci offre la possibilità di com-prendere le azioni dell’altro e di partecipare virtualmente ad esse, come se anche noi le stessimo mettendo in atto.

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La localizzazione è nel lobo parietale inferiore, nell’essere umano in particolare, sono coinvolte l’area 44 di Brodmann connessa all’area F5 premotoria per le azioni intransitive, e il lobo parietale posteriore per le azioni transitive.

Il lobo parietale è responsabile del movimento, infatti l’area F5 precedentemente menzionata è proprio una sorta di “VOCABOLARIO DI ATTI FINALIZZATI” che si attiva sia nel COMPIMENTO dell’atto motorio finalizzato, che nell’OSSERVAZIONE dello stesso.

Altro circuito specchio responsabile più da vicino dell’empatia comprende l’insula e la parte rostrale del cingolo, che si occupa della trasformazione dell’osservazione delle risposte emotive in risposte a livello viscero-motorio.

Quando osserviamo l’azione dell’altro, primariamente vi è il coinvolgimento delle aree visive, attraverso le quali l’informazione entra attraverso gli organi di senso(occhi) per poi giungere alla corteccia cerebrale. Vengono coinvolte: la corteccia visiva primaria, localizzata nel lobo occipitale e chiamata anche V1 o “corteccia striata”, si trova nell‘area 17 di Brodmann; la corteccia visiva secondaria (area 18 di Brodmann), terziaria (area 19 di Brodmann) e quaternaria. La corteccia visiva secondaria, terziaria e quaternaria sono definite “aree associative”, in quanto implicate nell’analisi, nel riconoscimento e nell’interpretazione delle immagini elaborate nella V1.

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Attraverso il funzionamento della corteccia, le immagini capovolte e a due dimensioni in entrata dagli organi di senso, si trasformano in immagini diritte, a tre dimensioni, integrate con la realtà e collegate alla memoria delle esperienze vissute. E’ grazie ad essa che elaboriamo le forme, la collocazione, l’orientamento degli oggetti statici e in movimento, i colori, che in sé e per sé non sono altro che impulsi di luce a diverse lunghezze d’onda.

Questo per quanto riguarda il coinvolgimento del sistema visivo, ma che ruolo può avere, invece, la COMPONENTE SONORA nell’attivazione del sistema specchio?

Innanzitutto diciamo, a grandi linee, che l’informazione sonora viene veicolata dall’orecchio esterno e interno, poi passa attraverso il tronco encefalico, il mesencefalo, sino ad arrivare al talamo, e da lì viene trasmessa alla corteccia uditiva primaria (responsabile dell’elaborazione e del riconoscimento di caratteristiche base del suono, ad es: altezza, ritmo), collocata nel lobo temporale a cui è collegata la corteccia uditiva secondaria, col coinvolgimento del lobo frontale (permette la distinzione di particolari e specifici suoni, come: voce, musica, rumore).

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Tramite osservazione delle immagini cerebrali, attraverso la tecnica di risonanza magnetica funzionale, si è potuto verificare che ascoltare un’azione senza vederla (ad esempio: ascoltare qualcuno che sfoglia le pagine di un libro) porti ad attivare il sistema motorio corrispondente, anche se a un livello inferiore rispetto a quanto avviene tramite la stimolazione per vie visive.

Quindi, per sintetizzare, dal un punto di vista neurologico cosa accade?

Nel momento in cui osserviamo chi compie l’azione, in noi si azionano le aree visive e uditive, che innescano il funzionamento di regioni cerebrali parietali e pre-motorie, grazie alle quali possiamo replicare l’azione qualora la volessimo mettere in atto.

Se il livello di immedesimazione è alto, l’attivazione premotoria a livello cerebrale passa nel corpo, ed è così che iniziamo a muovere le stesse parti che vediamo muoversi nell’altro. Un esempio semplice di questo processo lo possiamo riscontrare nel quotidiano: quando focalizziamo l’attenzione sul discorso di un nostro interlocutore, spesso muoviamo involontariamente le labbra, proprio come a “mimare” ciò che sta dicendo.

In seguito, il dott. C. Keysers, attraverso una serie di studi, è riuscito a spiegare come non solo attiviamo cerebralmente le nostre azioni osservando quelle degli altri, ma attiviamo anche le nostre sensazioni osservando quelle altrui. Ad esempio: se vediamo qualcuno sollevare un oggetto, riusciamo a capire più o meno quanto questo sia pesante valutando la fatica che questa persona sta impiegando per compiere l’intera azione.

 

E per quanto riguarda la psicopatia?

Una teoria sulla psicopatia afferma che i soggetti che ne soffrono non hanno emozioni, e per questo, in loro, non si attiverebbero le aree cerebrali del sistema specchio qualora vedessero altri provare dolore. In realtà, dagli esperimenti di C. Keysers emerge un dato interessante: negli psicopatici senza “istruzioni all’empatia” non si attiva il sistema-specchio nel vedere la sofferenza altrui, mentre se vengono istruiti all’empatia essi mostrano la stessa attivazione delle aree cerebrali dei soggetti sani.

Dunque, da quanto emerso in questi studi, si potrebbe concludere che:

NON È CHE GLI INDIVIDUI PSICOPATICI SIANO INCAPACI DI PROVARE EMPATIA (DEFICIT), È VERO PIUTTOSTO CHE NON SONO ABITUATI AD ESERCITARLA. NE HANNO, CIOÈ, UNA MINORE PROPENSIONE RISPETTO ALLA MEDIA DEGLI INDIVIDUI SANI.

Questo, senza ombra di dubbio, ha delle considerevoli ripercussioni specialmente nel recupero e nella riabilitazione psico-sociale delle persone criminali.

Alla luce di questi dati, l’empatia è una capacità che c’è o non c’è, oppure si può “allenare”?

Si può dire che essa sia una caratteristica sempre presente come “dotazione” biologico-genetica di base, che può essere sviluppata, allenata e modulata in relazione alle diverse situazioni di vita in cui ci si trova collocati e in cui si entra inevitabilmente in interazione.

È una facoltà legata a quella che viene definita “intelligenza emotiva”, la quale presuppone la capacità di percepire, identificare e riconoscere le emozioni e i sentimenti propri e degli altri. Avere una soddisfacente ALFABETIZZAZIONE EMOTIVA (che al giorno d’oggi scarseggia in modo grave) significa avere delle “chiavi” in più per poter aprire le porte al nostro vissuto interiore e a quello altrui, significa ESSERE PIÙ UMANI, “sentire” e “vedere” il mondo dentro e intorno a noi in maniera più vivida, genuina e meno nebbiosa. Saper leggere i colori e i toni emotivi che risuonano in noi, ci permette di regolarli, modificarli, renderli flessibili. In questo modo, possiamo sfruttarli in modo costruttivo e favorire la nostra auto-consapevolezza, l’auto-motivazione (fondamentale per il raggiungimento di obiettivi, sia a breve che a lungo termine) e il nostro adattamento.

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Come possiamo metterci nei panni degli altri, se non ci conosciamo? Come possiamo comprendere il vissuto emotivo dell’altro, se non abbiamo idea di come leggere e interpretare il nostro?

Una capacità mica semplice da mettere in atto! Essa comprende: l’identificare e il dar spazio ad alcuni bisogni e desideri, saper discernere quali cose, persone o situazioni generano in noi i diversi stati emotivi, come questi si manifestano, come li esprimiamo e quali sono le conseguenze di queste reazioni.

Cosa implica il gestire le emozioni in modo adeguato?

Consente di vivere in armonia e benessere con noi stessi e tutto ciò che ci circonda.

Pensiamo a quanto possa essere fondamentale sviluppare l’intelligenza emotiva e l’empatia in un mondo come il nostro, dove regnano pressoché incontrastati: individualismo, solitudine, egoismo, apparenza.

 

L’empatia riporta l’attenzione all’esperienza vissuta, alle emozioni, alle reazioni corporee, agli atti mentali che innescano e mediano il nostro rapporto col mondo. Il suo potere di ATTIVAZIONE e RI-ATTIVAZIONE della speciale sfera del “SENTIRE L’ALTRO”, consente di sviluppare infinite possibilità di creazione, di autentico “vivere”, molteplici modi di esser-ci ed essere-nel-mondo.

 

 

Carlotta Cadoni

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**ANTICIPAZIONI**:

Nella parte 2 l’empatia verrà trattata dal punto di vista psicologico-dinamico.

 

CREATIVITÀ: spontaneità e “creazione”

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CREATIVITÀ: spontaneità e “creazione”

In ogni attività creativa, colui che crea si fonde con la propria materia, che rappresenta il mondo che lo circonda. Sia che il contadino coltivi il grano o il pittore dipinga un quadro, in ogni tipo di lavoro creativo, l’artefice e il suo oggetto diventano un’unica cosa: l’uomo si unisce col mondo nel processo di creazione.”

(E. Fromm)

 

Se l’individuo realizza il suo io mediante l’attività spontanea, e in questo modo si mette in rapporto con il mondo, cessa di essere un atomo isolato; sia lui che il mondo diventano parti di un tutto organico; egli occupa il suo giusto posto, e così i dubbi su se stesso e sul significato della vita; quando egli riesce a vivere non in modo coatto, né da automa, ma spontaneamente, essi scompaiono. Ha coscienza di sé come un individuo attivo e creativo e riconosce che c’è un solo significato della vita: l’atto stesso di vivere.”

(E. Fromm)

 

L’educazione deve promuovere l’indipendenza interiore e l’individualità del bambino, il suo sviluppo e la sua integrità.  Nella nostra civiltà, tuttavia, l’educazione, troppo spesso, produce l’eliminazione della spontaneità.”

(E. Fromm)

 

La spontaneità è il momento in cui ci sentiamo liberi di esprimerci in tutto il nostro essere e in cui ci avviciniamo al nostro Sé. Purtroppo il sistema educativo ufficiale tende ad eliminare la spontaneità, ed è così che gli esseri umani si ritrovano come automi o ripetitori stereotipati di pensieri e modi di vivere semplicemente “copiati”, “imposti” e non propri, derivati da un indottrinamento acritico e monocromatico. Ognuno dovrebbe essere libero di esprimere e sviluppare la sua unicità, con tutti i colori e tutte le possibili sfumature. Ciò è tanto più possibile quanto più ci si connette a se stessi e a ciò che ci circonda, prendendo sempre più coscienza di essere PARTE INTEGRANTE del grande disegno della VITA.

Chi tenterà di “uscire” fuori da questo grande Guscio del Controllo, deve mettere in conto che il percorso non sarà facile poiché verrà osteggiato, deriso, ignorato, visto come pericoloso, allontanato, forzatamente etichettato, soprattutto se non si può “corrompere” o “catalogare”.

La verità è che la spontaneità fa paura perché è difficile da “imbrigliare” e dirigere, si lega alla fluidità e alla mutevolezza della vita, è come una sorta di “mina vagante” capace di portare disequilibrio e destabilizzazione. Il bello di ciò sta proprio nel fatto che senza di essa non ci sarebbe il “nuovo”, non sarebbe per noi possibile ristabilire e creare nuovi equilibri. Spesso siamo invece portati a cullarci e crogiolarci tra le sbarre sicure del conosciuto, del familiare e così escludiamo tutta la realtà che c’è “fuori”. Un po’ come nel famoso mito della caverna di Platone:

La vera tragedia della vita è quando un uomo ha paura della luce”.

Quando si tendono a fare troppi calcoli e programmi per la propria esistenza o ci si impone degli standard da raggiungere o dei parametri in cui rientrare, si rischia di essere schiavi del proprio bisogno di matrice difensiva egoica di controllo, sicurezza, previsione, conferma. Questo, troppo spesso, ci spinge a compiere delle scelte affrettate, a staccarci dal nostro nucleo emotivo, ad essere lamentosi, ansiosi, angosciati, frustrati, depressi. Ciò avviene perché in realtà, nel caotico fluire della spontaneità della vita, si può controllare o dirigere molto poco, i programmi possono “saltare” e i risultati possono essere diversi da quelli aspettati. La difficoltà più grande per noi adulti-bambini a confronto col Grande e Immenso Maestro della Vita sta nel fatto che bisogna essere pronti a confrontarsi con la perdita, col distacco, con la “morte” per maturare e apprezzarne la natura, l’imprevedibilità, la sfida, e per conoscere se stessi e l’altro. A volte può essere vista come ingiusta, cinica, poiché ignora le “teorie”, le “leggi” e i “codici” degli uomini. Percorso molto molto duro, ma non dobbiamo scordare che noi saremo sempre nella Vita e la Vita sarà sempre in noi. Anche quando ci sembra tutto perduto, non vediamo via d’uscita o quando ci sentiamo profondamente soli e incompresi.

Non sempre ciò che ci fa sentire protetti o nel giusto, come le sbarre sicure dell’accettato, del ripetuto e del conformismo, è giusto e buono per noi. Solitamente siamo portati a pensare che la spontaneità derivi dall’istinto e non abbia alcun “filtro”, ciò è vero solo in parte. La spontaneità dell’essere umano complesso va a braccetto con la creatività ed è strettamente collegata con l’intelligenza, che non a caso deriva dal termine “intelligere” che significa “intendere”, “capire”; più precisamente sarebbe una contrazione del verbo legĕre, “leggere”, con l’avverbio intŭs, “dentro”, ovvero “leggere dentro”, andare in profondità nelle cose non fermandosi alla superficie e trovare e scovare collegamenti tra esse.

Molti psicologi, come Stern, la definiscono come:

La capacità generale di adattare il proprio pensiero e condotta di fronte a condizioni e situazioni nuove.”

Per altri studiosi come Legg e Hutter sarebbe:

La misura della capacità di un agente di raggiungere obiettivi in una varietà ampia di ambienti.”

In particolare, queste definizioni non hanno a che fare solo con la sfera delle caratteristiche personali (tratti) e delle capacità dell’individuo ma anche all’ambiente circostante, che non è un semplice “sfondo” passivo, ma anch’esso influenza attivamente l’intelligenza. In realtà, come possiamo vedere, è un concetto molto lontano dal “freddo” ragionamento logico o dell’esclusivo pensiero convergente, il quale prevede  una sola soluzione per un determinato problema o situazione, l’unica considerata come “valida” e “giusta”.

La presente definizione di intelligenza permette diversi approcci alla comprensione della creatività e al fatto che la spontaneità sia il seme di ogni attività creativa.

Solitamente siamo abituati ad applicare schemi di conoscenze già consolidate per adattarci alle varie situazioni, compresi “codici di interpretazione” condivisi della realtà. In questo modo siamo fermi alla fissità funzionale, ovvero consideriamo solo degli usi più familiari e ovvi che gli oggetti consentono, compresi metodi risolutivi per i problemi o modelli d’azione già “provati” e testati in precedenza che si sono rivelati efficaci e/o utili.

La fissità funzionale può essere considerata in contrasto con l’originalità e la creatività ed è, in realtà, uno dei maggiori ostacoli alla risoluzione dei problemi anche se potrebbe sembrare un’agevolazione poiché è quasi automatica. Infatti si attiva ogni volta che l’individuo risponde ad una situazione nuova in modo conosciuto e familiare anziché produrre delle risposte nuove che conducono alla soluzione del problema  o al raggiungimento di un fine.

Per lo studioso Maier i soggetti creativi sarebbero dotati di maggiore capacità di selezione e integrazione di elementi facenti parti del “repertorio comportamentale” (entro cui vi sono sia comportamenti specifici innati che appresi) combinandoli in modo diverso e mutevole a seconda del contesto. Gli individui selezionano i loro comportamenti ed organizzano le loro esperienze, cosicché i comportamenti messi in atto in una data situazione possono essere il frutto di elementi innati e acquisiti, connessi in modo nuovo tra loro (potremmo dire “fantasioso”). Questo garantisce all’organismo un’importante flessibilità.

La soluzione creativa dipende anche dal modo in cui si formulano i problemi. In particolare, Getzels (1975) distinse tra capacità di risolvere un problema e capacità di scoprire un problema. La capacità di scoprire un problema, vederlo in modo nuovo, esaminarlo da prospettive differenti, conferisce una dimensione in più alla realtà stessa con cui ci si sta confrontando e con cui si sta entrando in relazione, rispetto alla semplice risoluzione. Perciò si “scoprono” diversi percorsi plausibili da poter percorrere, anche se non convenzionali o consuetudinari, non è focalizzato esclusivamente a produrre la soluzione “giusta”, ma si sposta su quella “possibile”, perciò si lega anche ad una buona dose di previsione, intuito e immaginazione.

Per quanto riguarda l’ambito psicoanalitico possiamo cominciare col dire cosa fosse la creatività per Sigmund Freud. Essa, in estrema sintesi, si baserebbe su due meccanismi di difesa: spostamento e sublimazione. La sua visione della creatività è essenzialmente patomorfica, ovvero un individuo creativo sposterebbe la libido sessuale frustrata su un altro piano di realizzazione cambiando il suo corso, incanalandola verso altre attività (sublimandola), in questo modo sarebbe favorita l’adesione al principio di realtà e l’adattamento al contesto sociale di appartenenza.

In soldoni: per Freud la creatività è frutto della sublimazione di energie libidiche scaturite da una frustrazione, e del loro ri-orientamento in una direzione produttiva, socialmente accettata e gratificante.

Analizzando la prospettiva di Carl Gustav Jung in merito, troviamo invece una posizione molto più ampia, sfaccettata e complessa, e certamente meno deterministica e  “lineare” rispetto a quella freudiana, e difficilmente può essere ridotta ad un paio di righe. Ad ogni modo tenterò comunque di mettere in risalto le componenti del suo pensiero più importanti in vista di una comprensione di insieme il più chiara possibile, collegandole più specificamente al tema della creatività.

Sarebbe il rapporto dialettico tra archetipi interiorizzati e opposti attraverso l’enantiodromia compensativa(Animus/Anima, Persona/Ombra) a generare le dinamiche psichiche di ciascun individuo e a sviluppare e trasformare l’energia libidica, come “fiamma vitale” creativa. In particolare, un ruolo fondamentale nell’ambito della creatività si può ritrovare nella ricchezza dei prodotti dell’inconscio, in particolare mi vorrei soffermare sui lati sopiti, nascosti e non sviluppati dell’Ombra. Jung la definisce così:

Dentro di noi abbiamo un’Ombra: un tipo molto cattivo, molto povero, che dobbiamo accettare.”

Essa è la parte oscura della nostra personalità, ma non deve essere vista necessariamente con accezione negativa, poiché può essere portatrice di energie creative, che l’individuo solitamente tende ad ignorare, negare, non vedere. L’enantiodromia (che letteralmente significa “corsa nell’opposto”) si lega in modo particolare all’Ombra, è un concetto filosofico eracliteo ripreso e utilizzato da Jung che indica un principio universale della psiche umana, individuale e collettiva. Essa presuppone un movimento di compensazione di “tendenze opposte”. Compensazione e fluidità sono i termini chiave.

Qualora un’istanza psichica rimanesse ignorata o repressa, non smetterebbe di esistere e non sarebbe eliminata, ma al contrario precipiterebbe nell’inconscio per poi, ad un’occasione “propizia” ripresentarsi e riscattare più forte di prima, scatenando una vera e propria “rivoluzione”. Ma se questo nuovo equilibrio dovesse sbilanciarsi troppo nella direzione opposta, la nuova istanza accumulerebbe energia per scatenare una controrivoluzione. E’ un sistema vitale di bilanciamento e contro-bilanciamento che segue il principio di entropia e teoria del caos in fisica.

Nell’ombra quindi si accumula l’energia misteriosa che metterà in moto il movimento per la creazione e la stabilizzazione di una nuova omeostasi dinamica. Essa, attraverso la sua integrazione, dà sostanza e “realtà” all’esistenza umana. Qualsiasi corpo che sia “solido” e che è attraversato dalla luce, ha sempre un’ombra che lo sostiene.

Il legame tra realtà archetipica universale ed esperienze soggettive e contingenti, crea una sintesi fortissima di potenza creatrice. Ciò rimanda al processo di trasformazione alchemica, come metafora della tendenza dell’essere umano verso l’individuazione, il centro del Sè. La sintesi ha luogo grazie all’illuminazione da parte del faro della coscienza di questi elementi sconosciuti e oscuri che precipitano e galleggiano nel mare buio dell’inconscio. Il processo di armonizzazione di opposti, favorirebbe la loro integrazione, e così permetterebbe di trascendere l’ambiguità e la bipolarità intrinseca alla “vita” . Per Jung infatti è proprio l’istinto creativo ad essere specifico per l’uomo, è ciò che lo distingue dalle altre specie viventi, è la forza che lo spinge verso l’individuazione e la capacità di simbolizzazione. Ciò significa che c’è un profondissimo collegamento tra creatività e trasformazione psichica.

Il soggetto che è teso verso l’individuazione, si rapporta in modo creativo col mondo avvicinandosi al Sé: che sarebbe il centro della Personalità, l’archetipo della Totalità, in esso si riuniscono inizio-fine, vita-morte, è il luogo psichico nel quale gli opposti sono riuniti e trascesi. Così l’individuo tende a svilupparsi come un seme in potenza, vivendo secondo un télos, mediante il quale si avvicina sempre più alla realizzazione del suo pieno potenziale.

A proposito di sviluppo del proprio potenziale e di vocazione, non posso non citare il lavoro di Hillman in merito.

Ne “Il codice dell’anima”, Hillman mette in luce il fatto che le immagini archetipiche, creano i miti. Essi sono le “forme” simboliche attraverso cui l’anima può esprimere la propria energia e riconoscere la propria vocazione, a prescindere da pressioni sociali e da situazioni contingenti. Solo rispettando e aprendosi al mito che ciascuno porta in sé, l’essere umano che contiene in sé il seme della grande quercia, è in grado di costruire un rapporto equilibrato con la realtà, crescere nel mondo, portare a pieno compimento il proprio destino.

Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, ci dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino.” (J. Hillman, Il codice dell’anima, pag. 23)

Questo libro ha per argomento la vocazione, il destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme, sostanziano la “teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta.” (J. Hillman, Il codice dell’anima, pag. 21)

 

In ognuno di noi esiste un qualcosa di “vivo” che ci porta  ad essere in un certo modo, ad intraprendere determinati percorsi, a compiere delle scelte. Questo, esattamente questo è il daimon! Esso è  il «demone» che ciascuno di noi riceve come “compagno di viaggio” prima della nascita su questa Terra, secondo il mito di Er raccontato da Platone. Questa “spinta” di cui ragione e logica non comprendono “la fonte”, è facilmente comprensibile con l’intuizione, e le parole come «vocazione», «chiamata», «carattere» sarebbero la “maschera” utile a definirla.

James Hillman afferma che esso possa essere la chiave per leggere il «codice dell’anima», quella sorta di linguaggio cifrato che ci spinge ad agire ma che non sempre capiamo, né possiamo prevedere, che ci guida molto più di quanto noi siamo in grado di dirigerlo. Il daimon è quella “voce interiore” che ci conduce verso la piena realizzazione della nostra personalità.

Tutti abbiamo un destino, poiché tutti facciamo parte di un Grande Disegno. In esso la creatività sarebbe un’immensa energia la cui origine risiederebbe al di fuori della psiche umana inserita in uno specifico spazio-tempo. L’energia creativa è quella del creatore e proprio per questo spinge a realizzare e costruire se stessi (per meglio comprendere e comprendersi) attraverso un legame specifico con l’altro e il mondo. L’essere umano creativo non può che essere devoto verso la  realizzazione, dal momento in cui essa è intimamente collegata all’incessante fluire della natura, della Vita, è in realtà molto più potente del suo possessore, che rischia di essere trascinato e posseduto dalla sua potente corrente molto più di quanto sia effettivamente capace di dirigerla. È una possessione che prende varie forme che seguono modelli archetipici, ai quali l’esperienza creativa può aderire in momenti diversi, e che possono combinarsi o contaminarsi tra loro, ad esempio: la saggezza del vecchio (senex) , la giocosità irresponsabile del giovane (puer), la sregolatezza del folle ecc…

È dunque l’anima quella che trova il senso delle cose, che interiorizza eventi come esperienze, che si comunica nell’amore, che ha un’ansia religiosa e un rapporto speciale con la morte, e che realizza la possibilità immaginativa insita nella nostra natura, il fare esperienza attraverso la speculazione riflessiva, il sogno, l’immagine e la fantasia”. (Re-visione della psicologia, 1983).

 

Un’altra figura di spicco che merita di essere menzionata a proposito del tema in questione è certamente Winnicott, e il concetto da lui elaborato di dimensione transizionale in relazione alla creatività collegata all’attività ludica. Ciò che da egli viene chiamata esperienza transizionale è fondamentale per la comprensione dello sviluppo della capacità simbolica e attraverso essa, sin da piccolissimi, cerchiamo di creare un “ponte” tra il mondo esterno e interno. Di solito, per far ciò, i bambini molto piccoli utilizzano degli oggetti (che prendono il nome di “Oggetti transizionali”) verso i quali mostrano un particolare attaccamento; questi possono essere: coperte, orsacchiotti, cuscini ecc… che, oltre ad essere personificati così trasformandosi nei personaggi insostituibili dei loro giochi, divengono anche fonte di sicurezza, protezione e regolazione emotiva.

L’oggetto transizionale costituisce così un’area intermedia di esperienza che favorisce la relazione tra il mondo degli oggetti soggettivi (creati cioè dal bambino) e il mondo della realtà.

Il bisogno intrinseco di giocare non nasce per il bisogno di un distacco da una realtà frustrante (come sostenuto da Freud), quanto piuttosto da una necessità forte e innata di conoscenza ed esplorazione della realtà stessa. Per compiere questo percorso non basta la semplice “contrapposizione” tra realtà psichica interna e realtà esterna con-divisa, ma si deve tenere in considerazione una terza area che collega queste due realtà, una dimensione plastica e “virtuale” che, come già accennato prima, viene chiamata spazio transizionale, terza area o spazio potenziale.

I fenomeni transizionali sono dei mediatori nel processo di costruzione della realtà e sono altresì dei garanti della funzione fondamentale della fantasia. Essi sono al tempo stesso: processo, attività, relazione e costituiscono le basi del gioco e della creatività. Hanno una doppia articolazione:

1)separano: indicano l’inizio di me come essere autonomo e l’oggetto, da prosecuzione del sé, diventa oggetto non-me;

2)uniscono: esprimono la continuazione del bisogno di relazione e unione sperimentata attraverso la fantasia, l’inizio di un tipo affettuoso di rapporto oggettuale.

Si può dire che questi fenomeni costituiscano la radice del simbolismo e si prolungano, oltre che nel gioco e nella creatività, anche nel gusto e nella contemplazione e creazione artistica, e nel sentimento religioso.

Il gioco connesso alla capacità creativa quindi non è solo: esercizio, sfogo,  divertimento, evasione e/o fuga dalla realtà, ma ha una natura ben più profonda. Esso, è crescita, scoperta, relazione, esplorazione, creazione, libertà, messa alla prova dei propri limiti. Rappresenta il processo grazie al quale si fonda la capacità di relazionarsi, accettare e confrontarsi con differenze e similitudini, dare un senso e un significato a ciò che esperiamo e sentiamo come esseri unici e irripetibili.

 

Secondo lo psicoanalista S. Arieti esisterebbero due forme di creatività:

1)    creatività ordinaria: renderebbe l’individuo capace di apportare miglioramenti alla propria vita, rendendola il più soddisfacente possibile;

2)    creatività straordinaria: l’individuo avrebbe la capacità di essere un costruttore e innovatore di sistemi e paradigmi, tesi al miglioramento dell’esistenza di tutti, muovendosi anche verso la dimensione sociale più ampia e non solo personale.

In “Creatività, la sintesi magica” Arieti spiega che la persona dotata di creatività straordinaria, avrebbe una possibilità più estesa di accesso alle immagini rispetto alla media, compreso il ragionamento metaforico, e quello legato alla verbalizzazione. Queste “forme” per la comprensione e conoscenza del mondo, sono legate al processo primario, nel quale interviene l’inconscio.

Ci sarebbero delle somiglianze tra tre tipologie di individui: il sognatore, lo schizofrenico e il creativo. Essi condividerebbero un accesso facilitato e più rapido alla sfera primaria. Le differenze tra essi sono le seguenti:

1)    schizofrenico: resta impigliato nel labirinto caotico della sfera primaria;

2)    sognatore: si fa oltremodo influenzare da auto-suggestioni tralasciando la razionalità e la logica;

3)     creativo: è in grado di filtrare, adattare, elaborare, collegare le immagini e i prodotti caotici legati al processo primario col pensiero logico e integrato che invece appartiene al processo secondario.

Infine, si trova il processo terziario che riguarda la sintesi creativa. Esso, da una parte presuppone una forte passività ricettiva-attiva che sarebbe la facoltà che consente ai prodotti primari di “spuntare” e “venir fuori” all’improvviso, inaspettatamente, di getto, come quando diciamo che ci si “è accesa la lampadina”, ciò può avvenire, ad esempio, mentre meditiamo, contempliamo qualcosa, siamo “sovrappensiero”, fantastichiamo, sogniamo;  dall’altra richiede anche un’incisiva attività intenzionale e consapevole per gestire, incanalare quei materiali in modo adeguato, così da dargli senso e significato.

Arieti la definisce come:

“Una magia di cui la persona creativa rimane depositaria, un segreto che non può rivelare né a se stesso né agli altri.”

 

Ora, mettendo da parte la prospettiva psicoanalitica, possiamo dire che generalmente la maggioranza delle ricerche in ambito psicologico riguardo la creatività si siano maggiormente focalizzate sull’individuo, ovvero i tratti, la personalità, il temperamento, gli stili cognitivi, ecc… Un modello che si discosta da ciò è quello sistemico di Csikszentmihalyi, il quale vede la creatività anche come  fenomeno sociale e culturale e non solo psicologico-individuale. Ovvero, la creatività sarebbe un’indispensabile proprietà di un sistema ampio e complesso, un sistema che è molto più della somma delle parti che lo compongono. Due sono i presupposti principali affinchè un individuo sviluppi il suo essere cretivo:

1)    Possibilità e tempistica di accesso al dominio: questo dipende in larga parte dal vivere sin da piccoli in un ambiente ricettivo, stimolante, arricchente, che possa offrire gli strumenti d’accesso ad un certo dominio, come la famiglia, la scuola o l’incontro con un mentore. Questo contesto relazionale aiuta a stimolare l’interesse precoce per un certo dominio.

 

2)     L’accesso all’area di specialità: dipende sia dal grado di expertise e dalla bravura in un dominio, sia dalla capacità di farla venir fuori attraverso la comunicazione e le relazioni. La mancanza del contatto con l’area di specialità può rendere veramente difficile la realizzazione sociale pratica di un percorso creativo, ad esempio in ambito lavorativo.

 

Csikszentmihalyi riguardo a quelle che dovrebbero essere le caratteristiche intrinseche della personalità creativa, sostiene che nessuna di esse possa fungere da garante per la creatività. Nessun tratto specifico predice linearmente la capacità di un individuo di essere creativo. Il solo ed unico ingrediente che non può mancare nel creativo, e che risulta indispensabile, è l’equilibrazione della tensione dialettica tra OPPOSTI. Ovvero: egli ha la facoltà di sperimentare le opposizioni contemporaneamente, senza che ciò sia frustrante o disgregante. Anzi, muoversi da un estremo all’altro con fluidità permette di trovare nuove “sfumature” e nuove prospettive differenti per allargare gli orizzonti.

 

L’Autore delinea dieci dimensioni della complessità, che hanno una natura bipolare e che risultano tra loro in continuo stato di equilibrio dinamico:

1) energia fisica–riposo;

2) intelligenza-innocenza;

3) gioco-disciplina;

4) immaginazione-senso della realtà;

5) estroversione-introversione;

6) umiltà-orgoglio;

7) mascolinità-femminilità;

8) conservatorismo-ribellione;

9) passione-obbiettività;

10) sofferenza-entusiasmo.

 

Dunque, le persone creative non si distinguono dalle altre tanto per dei tratti specifici, quanto piuttosto per la loro capacità di usare e combinare in modo sempre differente un esteso repertorio di aspetti della personalità, che in apparenza possono sembrare in contraddizione tra loro.

Un lavoro di ricerca della Northwestern University sembra fornire delle evidenze psicofisiologiche per le quali la creatività dell’ essere umano sarebbe connessa ad una capacità minore e più debole di filtraggio delle informazioni “irrilevanti”. Come già accennato precedentemente, i creativi avrebbero un filtro sensoriale più debole rispetto ad altri, per questo motivo tenderebbero a far convergere nei propri processi attentivi più aspetti sensoriali relativi ad una data esperienza. Gli individui creativi sarebbero maggiormente “bombardati” dagli stimoli provenienti dall’ambiente circostante e da quelli “interni”, perciò svilupperebbero l’ “urgenza” di connetterli  e comporli nei modi più disparati possibili, per elaborarli meglio col minor dispendio di energie.

È stato evidenziato in ricerche successive la minor attivazione del marker neurale del “Sensory gating” che media l’attenzione nel filtraggio di informazioni, negli individui maggiormente creativi, identificata attraverso una risposta neuro-fisilogica di un’area dell’encefalo che si attiva  dopo 50 millisecondi dalla presentazione di uno stimolo (ERP P50). Dai dati emerge che l’effettiva produttività creativa in diversi ambiti si assocerebbe in modo statisticamente significativo a un minore segnale di sensory gating, corrispondente dunque a una difficoltà nell’ignorare stimoli non pertinenti.

La creatività è collegata ad una buona dose di solitudine e ad un confronto col senso di “vuoto”. Il creativo impara a giocare all’interno di questo “spazio possibile” e a dare forma a se stesso e al mondo. Esso è il regno della trasformazione, del possibile, dell’innocenza-spontaneità (contatto col nostro “bambino interiore”) così come dell’intelligenza, della MORTE così come della NASCITA. Permea nelle nostre vite per la natura contraddittoria e paradossale che ci caratterizza, siamo anima, corpo e spirito. In questo modo ognuno di noi ha la possibilità di sondare in modo diverso la realtà, creare “ponti” tra il conosciuto e il non conosciuto, imparare ad auto-osservarsi in modo critico e mettersi alla prova.

Da uno studio pubblicato su Mindfulness e condotto dall’ Università di Leiden è emerso che pratiche come la meditazione, possono favorire il pensiero creativo. In particolare fare pratica con gli esercizi di meditazione sembra influenzare a lungo termine la cognizione umana, tra cui la modalità attraverso cui vengono formulati i pensieri e concepite le idee.

Questo ci suggerisce che la creatività, come qualità creatrice intrinsecamente umana, è una dimensione di “contatto” che cresce e si sviluppa nel “Vuoto”, importante per abbracciare, conoscere, sondare e comprendere noi stessi e tutto il creato visibile e non.

 

Carlotta Cadoni

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NEAR DEATH EXPERIENCES: ESPERIENZE PRE-MORTE

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NEAR DEATH EXPERIENCES: ESPERIENZE PRE-MORTE

Le NDE o “Near Death Experiences” (in italiano: “Esperienze pre-morte”) sono un fenomeno misterioso, affascinante e ancora poco definito, che il panorama scientifico nazionale ed internazionale sta cercando di chiarire, sia nelle cause, sia nei suoi effetti a livello neuro-fisiologico e quindi cerebrale, e sulla vita successiva a questa esperienza degli individui che se si sono appunto trovati al confine tra la vita e la morte. L’esperienza pre-morte è sempre “vissuta” in modo particolare e unico per quello specifico soggetto, e la maggioranza delle “ri-costruzioni” derivano da ciò che i pazienti dicono di ricordare dopo il risveglio.

La particolarità del fenomeno sta nei suoi confini sfumati, nel contatto con una realtà inesplorata, poco conosciuta, una dimensione “altra” dove tutto ciò che viene sentito, visto e in generale percepito è “nuovo”, “straordinario”, “impossibile”, “luminoso”. Di solito si verificano in chi subisce un’interruzione traumatica della vita su questa Terra, tant’è che da alcuni sono chiamati “miracolosi” perché non in grado di essere spiegati con la ragione, la logica o il metodo scientifico ortodosso. Chi ha avuto la possibilità di provare un’ esperienza simile dice di essersi sentito come “sospeso”, “leggero”, questo solitamente si accompagna alla percezione di se stessi fuori dal proprio corpo, come se in quella dimensione potessimo osservarci per la prima volta da “spettatori”.

Come emerso dagli studi dello psichiatra Bruce Greyson, ciò che la maggioranza ricorda è di essere stata in un tunnel molto luminoso, di una luce quasi accecante per l’occhio umano, di aver rivisto se stessi, di aver incontrato i propri cari defunti, di aver rivisto tutta la propria vita a partire dalla nascita scorrere come in un film, una profonda sensazione di benessere, pace, accoglimento, visione di scenari e/o paesaggi bellissimi, eterei, con colori molto intensi, incontri con sconosciuti che fanno da “guida”, sensazione di essere trasportati da una forza propulsiva che appiattisce lo spazio e/o accelera il tempo, pensieri che si succedono molto velocemente tra loro, quasi indistinguibili, la sensazione traumatica di shock al momento del rientro nel proprio corpo terreno.

Greyson formulò una vera e propria “Scala” che poi prese il suo nome, caratterizzata da una serie di quesiti riguardanti le esperienze percettive che i soggetti riportavano durante le NDE. Dai casi esaminati, è risultato che si può parlare di “esperienza pre-morte” a partire da un minimo di 7 punti su 32 in totale.

La prima esperienza pre-morte documentata risale alla prima metà del 1700 in un trattato francese chiamato “Anecdotes de Médecine” del medico militare Monchaux, il quale aveva riportato la descrizione di una NDE di uno speziale molto famoso di quell’epoca che, dopo essere entrato in uno stato comatoso, al risveglio aveva riportato nei suoi ricordi di aver visto una luce fortissima e bianca, tanto da fargli credere di aver potuto vedere il paradiso. Ora, questo è un elemento che si ritrova spessissimo in tanti racconti di esperienze pre-morte, questa sensazione di contatto mistico con se stessi e con l’Universo, alcuni dicono di esser riusciti a vedere la Terra da Fuori e di essere rimasti sospesi nello spazio.

Quello delle NDE è un argomento controverso nel panorama scientifico, i ricercatori non riescono ancora a trovare una prova e un consenso unanime sulla loro natura, sulla loro origine e i loro effetti. Alcune persone che le hanno sperimentate hanno sviluppato nella parte successiva della loro esistenza dei TALENTI inaspettati, curiosi e straordinari mai emersi prima, ad esempio nella musica, nella pittura, nella scultura ecc..

Il fenomeno può essere visto e studiato attraverso tre prospettive scientifiche che si auspica, presto, diverranno sempre più collegate e interconnesse:

-psicologia: interessata a ciò che i soggetti riportano nelle loro esperienze soggettive e particolari, le loro sensazioni e emozioni, perciò come questa esperienza trascendente e mistica si sia integrata con la “vita” della persona successiva ad essa. L’esperienza pre-morte viene vista da una prospettiva simbolica e rimanda altresì al significato che ha assunto nel corso dell’esistenza di uno specifico individuo, e come egli è cambiato e si è sentito rispetto ad essa.

-medicina e neuroscienze: interessata al funzionamento e all’attività cerebrale durante le NDE, la spiegazione sarebbe riconducibile alla mancanza di sufficiente irrorazione sanguigna ed ossigenazione del cervello che causerebbe delle anomalie di funzionamento neurale a livello chimico-neurotrasmettitoriale. Sarebbe questa condizione a provocare una reazione a livello corporeo, producendo le classiche sensazioni e alterazioni pseudo-allucinatorie dell’esperienza pre-morte. Secondo gli studi in questo settore, le cosiddette esperienze extracorporee (Obe), cioè la sensazione di distacco dal proprio corpo e dell’essere spettatori fluttuanti di sé e di ciò che succede intorno, sarebbero causate da un funzionamento anomalo della regione cerebrale parieto-temporale, responsabile proprio della formazione e consapevolezza del concetto del proprio corpo. Per quanto riguarda invece il fenomeno della “re-visione della propria vita” come in un film, Charlese Choi avanza l’ipotesi che l’area cerebrale connessa a questo fenomeno è molto probabilmente il locus coeruleus (o “punto blu” situata nel tronco dell’encefalo, a livello del ponte), il cui funzionamento è legato allo stress e a regioni cerebrali (come il lobo temporale e il sistema limbico) che gestiscono la memoria e le emozioni. Però rimangono dei quesiti:

Perché quest’area può evocare tutti i ricordi delle azioni di una vita, durante la morte ma invece non evoca nessun ricordo durante altri episodi di stress intenso?

Come si può spiegare la formazione di nuovi concetti a livello morale, di assunzione di un profondo “senso religioso” della propria esistenza, che spesso accompagnano una Nde? O anche talenti e capacità mai mostrate prima?

 

Altri lavori di ricerca scientifica, come quelli condotti da Mobbs e Watt, in scienze cognitive, tentano di dare una spiegazione al fenomeno citando il caso di un paziente che, durante una Nde, era in fase di sonno Rem (“Rapid Eye Movement”, stato in cui noi sogniamo). Secondo loro il rivedere tutto il corso della propria vita durante le NDE sarebbe legato allo stato Rem, dato che esso è uno stato che risulta presente durante la Nde, è che è associato ai processi di consolidamento mnemonico.

Un problema che emerge a proposito, però, riguarda il fatto che lo stato Rem è coinvolto nei processi di consolidamento delle memorie procedurali (che riguardano il SAPER COME: leggere, guidare l’auto, suonare il piano, andare in bicicletta ecc..) ma non interviene invece per ciò che concerne la memoria  episodica (ricordi invece presenti in modo molto chiaro e vivido durante l’esperienza pre-morte).

Un’altra spiegazione è quella proposta da Myers che riguarda i “falsi ricordi”, ma viene messa facilmente in discussione dal fatto che circa il 50% delle Nde non accadono in situazioni in cui il paziente è inconsapevole. In più i falsi ricordi si verificano in soggetti con gravi problematiche di memoria già di per sé.

 

-fisica quantistica: all’interno della teoria elaborata dal dott. Hameroff e dal fisico e matematico Penrose, che prende il nome di “Teoria quantistica della coscienza”, le esperienze NDE sarebbero la “chiave” a livello sensoriale di ciò che la fisica quantistica sta cominciando ad approfondire di recente, ovvero: la coscienza dell’essere umano (il cui funzionamento viene collocato nella neocorteccia) sarebbe invece indipendente non solo da essa, ma anche dalla materia stessa (neuroni e cervello), perciò sarebbe un’entità di contatto e comunicazione tra la materia e  l’antimateria, fatta per sopravvivere in altra “veste” all’evento morte-corporea. Come affermato da Hameroff al Daily Mail:

“Con la morte, l’informazione quantistica (coscienza) non è distrutta, non può essere distrutta, ma viene RICONSEGNATA al cosmo. Quando un paziente torna a vivere dopo una breve esperienza di morte, l’informazione quantistica torna a legarsi alla persona, facendole sperimentare i famosi casi di premorte”.

 

La coscienza degli uomini, perciò non si esaurirebbe nel funzionamento neuro-cerebrale, ma sarebbe una INFORMAZIONE quantistica esistente anche al di fuori del corpo, che va oltre i limiti dello spazio e del tempo. Alla luce di ciò, sembrerebbe  trattarsi di quella che per secoli è stata chiamata anima o “psyché”.

Per la visione comune del tunnel di luce durante una NDE, gli scienziati hanno provato ad avanzare delle ipotesi che sarebbero collegate agli effetti allucinatori delle aree cerebrali deputate alla visione, che si verificherebbero quando il cervello è a corto d’ossigeno. Ora, se da una parte è vero che queste sensazioni possono essere provocate da questo malfunzionamento a livello cerebrale, è anche vero che in non tutte le Nde si verifica grave carenza e/o mancanza di ossigeno cerebrale, e nonostante ciò la percezione del tunnel di luce permane.

Inoltre quando il cervello è in ipossia non lavora in modo corretto. Seguendo questa prospettiva le esperienze pre morte dovrebbero essere caotiche, disorganizzate, impossibili da ricordare, simili a delle crisi epilettiche o a delle allucinazioni causate da malattia mentale.

Invece le NDE hanno proprio la peculiarità di essere organizzate, coerenti, ricordate con minuzia e precisione, come se la coscienza non fosse affatto assente o inibita. Alcune persone affermano che esse siano «più reali della realtà stessa» e quando le hanno vissute si sono sentite bene, in perfetta comunione con se stesse e l’Universo, serene, non intimorite ma libere. Nella quasi totalità dei casi dopo una NDE gli individui riportano un netto miglioramento della propria esistenza a tutti i livelli, maggiore consapevolezza, sviluppo di abilità e capacità mai espresse prima.

Alla luce dei contenuti esposti sorgono imprescindibilmente degli interrogativi:

Siamo sicuri che la sede della coscienza sia nel cervello, e in modo particolare nella neocorteccia? Non avremmo per caso fatto un’operazione arbitraria?

Ciò che noi chiamiamo “coscienza” potrebbe essere l’equivalente di quella che gli antichi chiamavano “anima”? E dunque questa “psyché” potrebbe esistere, oltre che nel cervello, anche in tutto il nostro corpo e non solo, in tutto il creato?

Siamo certi che quella che chiamiamo “coscienza” abbia confini e limiti determinati e definiti di spazio e tempo?

Non sarebbe necessaria e utile una minore chiusura e una maggiore collaborazione tra psicologia, medicina e neuroscienze, e fisica quantistica, per la creazione di equipe miste di ricerca?

 

Ci sono, ad oggi, vari gruppi di ricerca scientifica e associazioni che si occupano dello studio e dell’approfondimento delle NDE (come i famosi studi del medico cardiologo Pim van Lommel della Nour Foundation,  la Horizon Research Foundation, la NDERF), compresi dei gruppi presenti nei social network in cui le persone cha hanno vissuto una NDE raccontano le loro esperienze confrontandole, e così trovando punti in comune e mettendo in risalto altre caratteristiche e curiosità delle esperienze pre-morte.

Di seguito link utili all’approfondimento dell’argomento e alla lettura di alcuni casi:

http://www.nourfoundation.com/speakers/Pim-van-Lommel-MD.html

http://www.horizonresearch.org/

https://www.youtube.com/user/NourFoundation

http://www.nderf.org/

http://www.nderf.org/Italian/

http://www.webalice.it/cipidoc/nde6.htm

 

Carlotta Cadoni

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